Fotografia, testo, tempo e racconto: la Narrative art

In Arte

Parole e immagini insieme con un unico obbiettivo: costruire una narrazione, anche a partire dagli elementi più banali e feriali del quotidiano. Questo il filo che lega le immagini raccolte nella mostra “Narrativa. Visual Essays” presso Twenty14 contemporary. Tra Sartre, Bergson e Proust.

 

«Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo»

È con una frase tratta da La nausea del filosofo francese Jean-Paul Sartre che Matilde Scaramellini ed Elena Vaninetti scelgono di introdurre “Narrativa”, collettiva che prende spunto dalla Narrative Art: la corrente – o tendenza, come la definisce Giulia Brivio (1981), autrice del testo critico, preferendo questa categoria a quella di “movimento artistico” –  nata negli anni ’70, si trova a dialogare con giovani artisti che ritrovano oggi un approccio molto simile, per quanto mosso da urgenze storiche diverse. A trainare i risultati è la volontà di raccontare, di narrare appunto, potenzialmente inesauribile per l’uomo e con cui oggi, più che in altre epoche, è impossibile non fare i conti.

I pezzi degli autori del tempo arrivano dalla collezione dello Studio d’Arte Cannaviello, la galleria romana che presentò per la prima volta al nostro Paese il primo e il secondo capitolo italiano di “Narrative Art”. Erano, rispettivamente, il 1974 e il 1975 e seguivano le primissime mostre dedicate a New York (1973) e a Bruxelles (1974). Ora Didier Bay, Marc Camille Chaimowicz, Roger Cutforth, Jochen Gerz, Peter Hutchinson, Jean Le Gac ed Helmut Schwarzer tornano sulle pareti della Twenty14 Contemporary con pezzi che nonostante i 40 anni trascorsi rimangono estremamente attuali, affiancati a quelli di tre autori contemporanei: due italiani, Jacopo Gospel Quaggia e Luca Massaro, e un finlandese, Heikki Kaski.

Roger Cuthfort
Roger Cuthfort

Narrazione in parole e immagini, legate in modo logico o illogico, vengono avvicinate dagli autori in rapporti sempre diversi e nuovi. Il testo diventa così didascalia, ripetizione, indizio, contraddizione, si affianca all’immagine e alle sue sequenze, la sfiora, le volta le spalle o la guarda negli occhi. Magari la ignora, ma non è mai fine se stesso. I due elementi si con-fondono, per completarsi o alternarsi e soprattutto risvegliare immaginazione, evocare sogno, far riaffiorare memoria – e qui il pensiero corre a Bergson e a Proust – in chi ha creato e in chi legge e guarda, lasciando la possibilità e anzi, incoraggiando a ritrovarvi qualcosa di proprio. In questo modo ogni storia, in molti casi autobiografica ed estremamente radicata nel quotidiano, è in grado di parlare alle biografie di altri e di generare infiniti sensi, infinite storie.

Forse è anche questo a preservare le opere nel tempo e a consentire il confronto generazionale ricercato da Scaramellini e Vaninetti, «uno degli aspetti che ci interessa di più dal punto di vista curatoriale». Nonostante manchi il link storico – la Narrative art dei ’70 nacque in reazione all’approccio concettuale, troppo astratto, e a quello della body art, in cui la fotografia fungeva da semplice accessorio e strumento di documentazione – le curatrici hanno voluto porre sullo stesso piano gli approcci. Si tratta pur sempre di ricerca, di ritorno a un’autorialità. E, in fondo, di uno stesso momento. «Negli anni ’70 questi autori – spiega Vaninetti – erano emergenti tanto quanto lo sono quelli che abbiamo proposto noi: anche se con l’andare del tempo le opere hanno acquistato valore e gli artisti si sono affermati, possiamo dire che la finestra temporale è la stessa». Messe al pari, le due generazioni sono accomunate anche dal modo di approcciarsi al mezzo fotografico. «Molto soggettivo, ingenuo. Quasi naive», spiega Scaramellini.  In grado di fissare un istante e di fermare la realtà. Si annulla il tempo e si evoca la memoria, dunque; l’attenzione si posa sulle cose che non sembrerebbero nemmeno meritarla. «Il banale – continua – torna su un piano di rilevanza e il fotografo sembra dire: io ci sono, questo è il mio sguardo». L’oggetto diventa così oggetto fotografico perché parte del racconto dell’autore. E si affianca al testo, che contribuisce alla comunicazione e al coinvolgimento dello spettatore, ricercato e a cui si richiede un’interpretazione.

Dider Bay
Dider Bay

A fare da locandina c’è la “Statue doree et le peintre” (1976) del pittore e fotografo della Nouvelle figuration – poi integrato nella Narrative art – Jean Le Gac. Attorno a lui gli altri nomi (ormai) noti: qualcuno racconta luoghi naturali, come Roger Cuthfort, che si concentra su una differente qualità di luce durante momenti diversi del giorno in New Mexico e sceglie il trittico, a cui si aggiunge un quarto elemento che colloca il luogo su una mappa. Anche Helmut Schwarzer opta per un’opera in tre atti, racchiusi tutti nella stessa cornice. Hutchinson sceglie un dettaglio nascosto sul fondo del mare, ne offre le coordinate geografiche e poi una sorta di didascalia. In un’altra tavola racconta il suo giardino, a parole e in immagini metonimiche, e il suo gatto, che entra come personaggio della piccola storia. Didier Bay sceglie angoli ed epifanie domestiche da raccogliere in un album, Jochen Gertz adotta la lunga sequenza, in cui il testo interviene come momento finale. Marc Camille Chaimowicz narra gli spazi e la sua relazione con essi, quasi contemplativa. Ma a essere davvero interessanti sono i nuovi interlocutori, che affrontano la realtà in maniera molto differente l’uno dall’altro. Quaggia in maniera più «diaristica», Massaro più «didascalica» e Kaski «visiva».

Marc Camille Chaimovitz
Marc Camille Chaimovitz

Le suggestioni contemporanee, spiega Vaninetti, «si sono unite a quelle dei predecessori in modo abbastanza naturale». Il dialogo all’inizio avrebbe dovuto esprimersi attraverso il caos negli allestimenti: mischiando carte e autori in modo esplicito. «Poi – racconta Scaramellini – ci siamo rese conto che non ce n’era bisogno». E così ogni autore ha la sua parete e le opere giocano nello spazio, che richiama quello presente già all’interno di ogni cornice. Ma non c’è nulla di lineare, metodico o schematico, è tutta una questione di colpo d’occhio e di equilibri. Per questo motivo il vistoso lightbox di Luca Massaro finisce in cima alla vetrina che divide la galleria dallo spazio esterno, come fosse un’insegna luminosa, per non stridere con gli altri lavori

Jacopo Quaggia
Jacopo Quaggia

Di decisamente metodico, però, c’è il lavoro degli artisti. Il primo intercettato dalle curatrici, che all’interno del trio pare quello maggiormente guidato dalla spinta autobiografica, è stato Jacopo Gospel Quaggia (Milano, 1982): sui muri della galleria un piccolo estratto di “Piano 2014” (qui l’intero progetto http://www.jacopoquaggia.com/piano-2014–7), lavoro portato avanti durante un anno di vita, in modo quasi scientifico, se così si può definire lo sguardo che si rivolge verso se stesso per raccontare quello che accade e quello che prova l’autore e per compiere una sorta di autoterapia. Soggettivo e per questo potenzialmente universale. «Mi piacerebbe che ogni persona potesse vederci qualcosa di proprio, nel mio lavoro», dice Quaggia. D’altra parte lo scopo dell’arte, per lui, è quello di non lasciare soli gli esseri umani. I suoi testi, impressi con la macchina per scrivere e incorniciati come le immagini, giocano con queste, le completano, aggiungono elementi, a volte fungono da didascalie, altre da prosecuzione del racconto. Potenzialmente incoerente a causa del mezzo fotografico, che più che “raccontare”, “traduce”. «Le storie preferisco raccontarle al bar, o preferisco fare un film». La coerenza per un artista, spiega «è un atto dovuto e in particolar modo se il linguaggio utilizzato è quello fotografico. Tradurre in immagini i propri concetti, oltre ad essere un’operazione estenuante, deve necessariamente avere lo scopo di far intuire tali concetti». E pone l’accento sull’aspetto dell’intuizione. «Se ora nego la funzione svelatrice della fotografia in quanto prova incontrovertibile, in quanto dimostrazione, in quanto certezza, in quanto elemento unificatore della ragione – non nego certo l’empatia che inevitabilmente le immagini possono incontrare nel loro silenzioso cammino».

Luca Massaro
Luca Massaro

Per generare quest’empatia, si spazza via la singola, “grande” foto: non c’è nulla di eroico in questo quotidiano. In questo momento storico, continua Elena «l’attenzione sta tornando sulla fotografia vernacolare e su quella cosiddetta “amatoriale”, viene rivalutato l’errore. Non c’è una sola foto in evidenza, più importante, ma è il corpo di lavoro ad assumere importanza e quindi ogni frame, cornice, è una piccola storia». Quello che conta, in questi autori, è la serie, il corpus dell’opera. Il lavoro più seriale è senz’altro quello realizzato da Luca Massaro (Reggio Emilia, 1991), che ha raccolto tra il 2010 e il 2014, tra Europa e Giappone, fotografie di parole che hanno tutte a che fare con la visione, come in un’enciclopedia “tra i cliché e le sfumature delle immagine contemporanea” (tratto dalla presentazione del libro Foto Grafia da cui è tratto il progetto, edito nel 2015 da Danilo Montanari http://www.danilomontanari.com/pubblicazioni/foto-grafia/). Un dizionario multilingue e multicolore di parole raccolte fotografando cartelli stradali, graffiti, annunci, insegne, copertine… Una collezione potenzialmente infinita in cui immagine e testo fanno l’una parte dell’altro, in un cortocircuito di cui sono complici la formazione letteraria dell’autore, i suoi studi di linguistica e semiotica. Eppure Massaro riesce a non prendersi troppo sul serio e insieme a essere erudito dietro quella copertina pop, divertente e insieme discreto, immediato e insieme evocativo, a suscitare una domanda non solo nei confronti di se stesso ma anche dei suoi spettatori.

Heikki Kaski
Heikki Kaski

Heikki Kaski (Kantvik, Finland, 1987) fa proprio un approccio maggiormente documentario e insieme romantico. Con sensibilità personalissima racconta la storia di Tranquility, piccola città della California dove Kaski, capitato quasi per caso la prima volta, è tornato a scattare per oltre un anno e mezzo, mentre viveva a Los Angeles. «A volte mi fermavo per una settimana, a volte per un paio di giorni». Un luogo microscopico nel mezzo della Central Valley, 800 persone, 12 strade, quattro chiese, due negozi di alimentari, una scuola e così via…  su cui Kaski ha edificato a livello narrativo una propria struttura nel libro omonimo pubblicato nel 2014. Il libro, spiega Kaski, sostiene che «luogo, tempo e memoria sono incessantemente codificati e sono concetti mutevoli, caratterizzati primariamente da elasticità e imprecisione». Il suo lavoro, spiega ancora, «non utilizza il testo allo stesso modo della Narrative art, bensì utilizza le immagini secondo diverse strategie e in modo molto libero, a volte con una connotazione iconica, a volte simbolica, a volte legata alla rappresentazione delle cose, a volte in maniera allegorica rispetto a un’altra immagine». Il punto, mi spiega Kaski, è che ci sono diverse strategie di interazione tra immagini, più chiare all’interno del libro, attraverso coppie di fotografie, piccole serie, ripetizioni accompagnate da qualche frammento di testo. Ma anche nelle grandi cornici in mostra (tre sulle pareti della Twenty14 Contemporary), azzardo io, la composizione delle immagini funziona come parole in una frase, o forse paragrafi, capitoli. A interagire con quelle immagini, azzardo ancora, è forse allora il titolo, ovvero il nome di quel luogo, un luogo la cui natura secondo Kaski viene definita «in modo rigoroso e insieme insufficiente da un nome così specifico». Calma, silenziosa, dimenticata. Circondata dall’orizzonte e, in un sogno dell’autore, di alieni. Un momento onirico e ambiguo che riporta a quell’immaginazione così evocata dagli artisti precedenti.

Un uomo è sempre un narratore di storie; vive circondato dalle sue storie e dalle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse

Jean-Paul Sartre, La nausea

 

Narratica, Visual essays, Milano, Twenty14 contemporary, fino al 4 febbraio 2017

Immagine di copertina: foto di Heikki Kaski

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