‘Nei palchi della Scala. Storie Milanesi’ è la grande e immersiva mostra progettata da Pier Luigi Pizzi che racconta il teatro d’opera attaverso chi, l’aristocrazia cittadina, si è affacciato dai suoi palchi, ha intrecciato relazioni, chiuso affari, stabilito alleanze, tra politica e salotto. Ieri, ma accade anche oggi
Che si faceva in un vecchio palco della Scala, fra Settecento e Ottocento? Ci si esibiva, ci si appartava, si amava, si tramava, si stringevano amicizie e si sfasciavano, si guadagnavano soldi (affittando il palco a percentuale del 7%, contro la media immobiliare del 5%), se ne perdevano al gioco (non proprio in palco, nel foyer), si combinavano affari, si faceva letteratura, si spiava, si progettavano moti, si coltivava il potere, si pianificavano rivoluzioni. Si stava anche a teatro e si ascoltava musica, naturalmente, con un occhio solo o con due, a orecchie spente o ben aperte, si applaudiva e si fischiava, si sussurravamo segreti e si lanciavano volantini, si faceva salotto e si progettavano scenari politici.
Oggi? Ci si esibisce e ci si apparta, si flirta e si trama qualcosa, si stringono amicizie e si rovinano, si fanno affari e cultura, si sta a teatro e si dorme, si ascolta e si chatta, si applaude e si fischia, si fa salotto e politica (per questo oggi basta esserci, dopo aver preteso gratis la poltrona che non ci si sognerebbe nemmeno di pagare, come fa regolarmente Angela Merkel).
Per capire la Scala di oggi ritagliatevi due ore con la Scala di ieri. C’è una mostra, la più interessante allestita al Museo Teatrale, che racconta per immersione la storia del teatro detto anche “Piermarini”, dal nome dell’architetto neoclassico che lo progettò, e anche la metà più bella di Milano. Una storia che inizia nel 1778, anno in cui il teatro fu eretto sul terreno della chiesa di Santa Maria della Scala; caso raro e forse unico di sala dei divertimenti nata sulle rovine di un luogo sacro. In Italia è sempre avvenuto il contrario, a Milano no.
Non è decisivo sapere che la Scala fu costruita in meno di due anni al tempo di Maria Teresa d’Austria, pur se la circostanza gonfia i petti sovranisti, senza motivo: la ricostruzione del dopoguerra dopo i bombardamenti fu anche più veloce, poco più di un anno, con precedenza del teatro sulla città intera. Importante è sapere che l’impresa la “misero su” velocemente 144 Palchettisti rimasti orfani del vecchio Ducale andato in fumo, nobili quasi tutti (123), nerbo economico della Milano di allora, e che fino al 1920, anno della trasformazione in Ente autonomo, la Scala fu proprietà privata di una società nella società che cambiava anno dopo anno con il mutare della storia, dalla nobiltà alla borghesia, dalle rendite agricole all’impresa. Quando la Scala verrà “conferita” al Comune, diventando proprietà pubblica, la proporzione fra nobili e borghesi sarà completamente rovesciata. Ovvio.
Capire la Scala significa capire Milano. E la mostra – meglio, la multipla installazione progettata da Pier Luigi Pizzi come scenografia da vivere -, è capace di spiegare entrambe. Sarebbe servita molto, cinque anni fa, al sovrintendente uscente, Alexander Pereira, per evitare errori. Ė in tempo a vederla (fino al 20 maggio), il nuovo entrante Dominique Meyer, per evitarne altri.
Storie milanesi. Nei palchi della Scala, sottotitolo Storie milanesi (il catalogo Treccani è ottima sintesi in carta, ma non sostituisce l’esperienza dal vivo), nasce diversi anni fa come ricerca di studenti avviata da Franco Pulcini, coordinatore scientifico e direttore delle edizioni Scala. Arriva a conclusione oggi, nel Museo Teatrale diretto da Donatella Brunazzi, in forza di un gruppo di lavoro che sembra la locandina di un allestimento d’opera: circa trenta persone tra assistenti, coordinatori, scrittori di testi (Mattia Palma, Valentina Dellavia, Pinuccia Carrer, Antonio Schilirò), ricercatori (Heidi Mancino), confezionatori di video (Francesca Molteni e Claudia Adragna), grafici (Emilio Fioravanti), supervisori di database (Massimo Gentili-Tedeschi), light designer (Marco Filibeck, Elisabetta Campanelli) e uno stuolo di giovani studenti.
Scorrono le foto storiche di Erio Piccagliani, di Silvia Lelli e Roberto Masotti, oggi di Giovanni Hänninen per le parti più immersive. E per un tuffo nel teatro intero c’è un nuovo plastico, al centro del foyer, che grazie a tablet per realtà aumentata rende conto, fra l’altro, di come la torre scenica della Scala possa contenere la torre di Pisa.
Le Storie milanesi sono quelle che per quasi centocinquant’anni decine di famiglie, abitanti esclusivi dei rispettivi palchi, hanno scritto in teatro e in città. Storie di 1223 proprietari succeduti l’un l’altro in fisiologiche turnazioni nei 155 salottini che “fanno” la Scala dalla platea al Loggione, attorno al fulcro del Palco Reale, ab initio Palco della Corona. Molti nomi dell’infinito elenco si leggono sulle targhe stradali della città: Borromeo, Busca Arconati Visconti, Greppi, Morbio, Resta, Gallarati Scotti, Sormani, Villani, Visconti di Modrone (questo il manipolo che mantenne la proprietà di un palco dal 1778 al 1920), e Litta, Trivulzio, Barbiano di Belgioioso, Confalonieri, Ponti, De Capitani in tutti i vicendevoli incroci, per via soprattutto femminile. Centinaia d’altri, fino a quota 1223, coincidono con la successiva e ben nota mappa dell’industria milanese del secondo Novecento; Pirelli in testa, per citare il contraltare architettonico che non è meno simbolo della città.
Mille e più sono anche le storie di non palchettisti, uomini di cultura orgogliosamente esibiti, che stanno sui libri di storia, di diritto e di letteratura, come Henry Beyle, in arte Stendhal, celebrante primo del mito Scala, Giuseppe Parini, Cesare Beccaria, Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Honoré de Balzac, Alessandro Manzoni (sorpresa scoprirlo giocatore incallito e redento dal Monti, strano per il profilo di cattolico etico che la scuola ci ha tramandato).
Mille storie fiorite ovviamente sulle musiche di coloro che hanno fatto la Scala e quei palchi li hanno abitati per mestiere; Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini, Mascagni, Leoncavallo e i loro editori, Ricordi, Lucca e poi Sonzogno.
Un “sinfoniale di gesso caramellato” Che cos’erano i Palchi prima del 1920 per rendere la Scala imprescindibile? Lo spiega in tre righe Liszt, che ci mise piede en passant ma capì tutto: «A Milano per essere riconosciuti come stranieri è sufficiente la domanda: “Stasera andate alla Scala?”. Domanda superflua, oziosa e inutile, domanda che i milanesi non si rivolgono. Per loro non ci sono dubbi: tanto varrebbe chiedere se si è ancora vivi».
E che cosa dopo, negli anni trenta, nel secondo dopoguerra, durante il boom economico, e ancora oggi ogni sette dicembre che Dio manda in terra? Anche per questi cent’anni basta un “disegno milanese” di Carlo Emilio Gadda ne L’Adalgisa (1944): «Dentro, nel sinfoniale di gesso caramellato, era un pissi pissi da non dire: un cicìp e ciciàp, una chiàcchiera, un passeraio, di un par di migliaia di passeri e passere, in attesa del loro becchime sviolinativo”. Insomma la realtà di tutti i giorni.
Oggi lo straniero riempie la Scala anche più del milanese, e i cicìp e ciciàp dormono spesso il sonno degli ingiusti: vecchi abbonati che non li smuove nemmeno il Dies Irae di Verdi. Eppure lo spirito del ‘78 (millesettecento), sotto sotto vive ancora. Come scrivevano gli informatori alla polizia del Metternich, la Scala è il luogo in cui ogni starnuto ha eco anche più sonante di quel che si decide di fronte nella piazza. La Scala è “più” del Palazzo perché se la Scala lavora, riempie, non sciopera, non è in passivo (e non lo è stabilmente da quindici anni), vuol dire che Milano sta bene. E se Milano ride, anche l’Italia (forse) non piange.
Cap 20121 20122. Un cordone ombelicale stringe la Scala alla città, sia pure Cap 20121 e 20122 – scherzava Riccardo Muti -, dove vivono i palchettisti di oggi, gli abbonati che sono ancora il piedestallo del teatro: quelli che anticipano il prezzo del loro esserci ed entro il 7 dicembre versano in cassa la prima voce di bilancio. In questo “il Piermarini” è lo stesso di ieri: gli abbonati conservano il privilegio di poter confermare “quella” poltrona, “quel” palco, fino all’ultimo minuto prima che inizi la stagione. Un privilegio, detto diritto di prelazione, che costava un venti per cento in più e ai Palchettisti, pardon, Abbonati, non andava proprio giù. Il sovrintendente Lissner lo conservò, Pereira l’ha tolto, ma in fondo la “tassa” aveva il suo perché. Il privilegio dell’abbonato significa vivere il teatro come cosa propria, sì, ma da tenere in piedi a tutti i costi, anche contro la politica, che in Italia è la prima nemica di quel che di più italiano non c’è: l’Opera.
Nel paese che in Europa spende meno di tutti per la cultura, regge da sempre un atto di fede: i soldi ai teatri “possono solo scendere”. Qualcuno, poi, nemmeno un euro vorrebbe dare. Così la Scala è destinata a restare in fondo quella di sempre: “roba da Palchettisti” (Abbonati, Abbienti) e, attenzione, Loggionisti, loro estensione popolare ma non meno gelosa nel possesso dello spazio. Qualcuno lo capisce, anche se viene dall’estero, qualcun altro no.
PS. Ai colleghi giornalisti sportivi: per favore, smettetela di chiamare il Meazza la Scala del calcio. A San Siro annaspano da anni due squadre “zero tituli”. Una delle due, per la quale tifava Claudio Abbado, è già stata in B e continua a galleggiare sul fondo come un cadavere. Siamo seri: alla Scala cantano ancora Netrebko e Kaufmann. C’est à dire: Ronaldo e Messi.
Foto di apertura © Giovanni Hänninen. Tutte le immagini courtesy Teatro alla Scala