La raccolta di saggi “Nel nome della madre”, edita da Del Vecchio, propone riflessioni sulla maternità
e analizza diverse opere di narrativa che affrontano le molte sfaccettature di questo tema per proporre un ripensamento delle categorie associate alla figura della madre.
Cosa vuol dire diventare madre oggi? Me lo chiedo mentre la mia pancia cresce. E non basta esserci già passata, averci già pensato l’altra volta. Anche stavolta sarà una rivoluzione. Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Mettere al mondo una vita non può essere senza conseguenze.
Eppure, molto spesso, parlando di maternità ho l’impressione che la questione venga ridotta a un fatto emotivo. Diventare mamma è una cosa bellissima, è un miracolo, un’avventura, un’emozione. Oppure: essere mamma vuol dire passare notti insonni, pulire vomito da ogni maglietta, non poterti fare neanche una doccia in santa pace. O ancora: è senso di colpa, perché non va bene se lasci tuo figlio alla tata o ai nonni, ma neanche se lo tieni sempre con te. C’è poi il grande tema del lavoro: perché in ufficio bisogna tornarci presto, bisogna realizzarsi, ma guai a trascurare le creature! (ci si aspetta che le madri stiano nel mercato del lavoro nonostante la maternità… Chiara Saraceno).
Insomma, i discorsi, le opinioni e i consigli sulla maternità si sprecano. Si manifestano sotto forma di madre, ministro della sanità, suocera, amica con o senza figli, blogger trovata interrogando compulsivamente Google in una notte insonne. Ciascuna di queste figure racconta uno spicchio, un lato, un desiderio o un’implicazione della maternità. A mettere insieme i pezzi, tocca naturalmente alle dirette interessate. A volte però mancano gli strumenti per farlo.
In questo senso, ho trovato molto interessante una dichiarazione posta all’inizio del volume Nel nome della madre. Nel saggio introduttivo di questa variegata raccolta di riflessioni, scrive infatti Daniela Brogi: Volevamo trattare la madre come un’identità culturale e relazionale, non solo emotiva, invece che come un monumento muto, pauroso e ingombrante (p.9).
Il mondo della madre – secondo la Brogi – è lasciato sempre in secondo piano rispetto a quello del padre. Laddove il padre rappresenta la cultura, la tradizione, la storia e le radici, quella della madre è spesso presentata come una condizione prevalentemente biologica, quasi animalesca. Lo statuto di madre ha assorbito in passato e tende tuttora ad assorbire tutta l’identità sociale della donna, (L’assenza di maternità è ancora oggi accettata solo come sfortuna non voluta, non come scelta intenzionale. Chiara Saraceno, p.24), ma rimane luogo di tensione e ambivalenza. Interessante da questo punto di vista il confronto con altre culture, come quella dell’Africa subsahariana proposto nel contributo di Cecilia Pennacini. Insomma il tentativo di Nel nome della madre è quello di aiutarci a pensare alla maternità come una condizione creativa non solo in senso biologico, ma anche culturale e narrativo.
L’esperienza di entrare in contatto con il piacere di ascoltare una storia, con favole e miti che modulino la nostra posizione nel mondo […] è proprio quella con una figura materna che si mette a raccontare qualcosa, liberandoci dalle paure, aiutandoci simbolicamente a scampare i pericoli. La madre (intesa anche come metafora) è la prima garanzia narrativa del mondo (p.13).
Ma se la madre ha – nell’esperienza comune – un ruolo fondamentale di narratrice, cosa succede quando la scrittura si confronta con il tema del materno? È il caso del saggio di Tiziana de Rogatis: Ripensare l’eredità delle madri. Cerimoniale iniziatico e strutture rituali ne L’amore molesto, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura di Elena Ferrante, che propone il recupero di una letteratura che parli della maternità in rapporto all’identità femminile contemporanea. Le protagoniste di questi tre romanzi si trovano a fronteggiare una fase critica della loro vita, che risolvono mettendo in scena un vero e proprio rituale iniziatico, vale a dire una «performance trasformativa» dai forti contenuti teatrali, scenografici (p.72). Nel momento della crisi e della mancanza, insomma, queste donne entrano in relazione sia con la propria madre arcaica che con la propria figlia (reale o fittizia), secondo la teoria di Jung per cui Ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia. E infine, tutte e tre le protagoniste trovano la libertà in un matricidio simbolico; sono capaci, cioè, di sprofondare nelle proprie origini e di riemergere, includendo e accettando finalmente in sé il proprio immaginario materno, senza esserne sopraffatte.
È quello che racconta anche Helena Janeczek nel suo contributo Idee della madre: qui, l’orrore dell’Olocausto si manifesta nella fatica della maternità. Solo nell’accettazione di questo trauma risiede la possibilità di una relazione positiva tra madre e figlia e soprattutto la possibilità di una scrittura narrativa per l’autrice.
Utili nella stessa ottica sono le riflessioni proposte da Monica Cristina Storini sulle Figurazioni del materno e voci narranti nella letteratura tra Otto e Novecento. Il saggio indaga in particolare sulle conseguenze che la modellizzazione di tali relazioni [quelle familiari] comporta sul piano della facoltà autoriale e sulle forme del rapporto che l’autore o l’autrice instaurano con la scrittura e con il progetto di costruzione del sé che essa comporta (p.110). Secondo questo studio, la figura materna nei grandi romanzi italiani dell’Ottocento (dai Promessi sposi a Le ultime lettere di Jacopo Ortis) corrisponde sostanzialmente al modello di madre aristocratica e borghese agiata, che si limita a generare figli ed entra in azione soltanto quando vede messa in pericolo la loro felicità. La rappresentazione del ruolo formativo ed educativo materno verrà messa in scena invece in opere che celebrano le “madri italiane”, come Cuore:
Sono le indimenticabili datrici di vita, che sempre saranno in trepidante angoscia, chine sul letto dei loro figliuoli malati; si preoccupano del loro sostentamento anche materiale (direttamente o indirettamente); ne curano il decoro e la formazione morale, prima che culturale, personalmente (p.118).
Nell’immaginario dell’Italia appena unita, la madre è rappresentata come la prima trasmettitrice di valori eroici, civili e politici, che sopporta e comprende addirittura il sacrificio eroico e necessario dei propri figli. Ancora diversa, forse meno idealizzata e più realistica è infine la madre nel romanzo Cenere di Grazia Deledda (1903). La complessità e la frammentarietà delle figure materne proposte in questo romanzo hanno a che fare non tanto con la cultura e con il ruolo della donna, ma – in modo più viscerale – con l’elaborazione da parte dell’autrice della propria identità di scrittrice. Un po’ come la relazione con la madre si riflette in modo indelebile sulla scrittura di Alba de Céspedes, analizzata nel saggio di Lucinda Spera.
Insomma, i contributi di questa seconda parte di Nel nome della madre, più strettamente concentrati sulla dimensione letteraria, sembrano suggerire un legame tra maternità e scrittura. Per un’autrice, fare i conti con la propria madre – intesa come portatrice di radici e di cultura, oltre che dello stesso destino generativo – sarebbe dunque condizione imprescindibile per poter accedere a un’attività di scrittura risolta, e in generale a qualsiasi forma di maternità.
Ecco allora forse il senso ultimo di un’opera complessa come Nel nome della madre: riflettere sulla madre – non solo dal punto di vista letterario, ma anche storico, culturale, sociale – è un passaggio fondamentale e irrinunciabile per diventare madri a propria volta. Interrogarsi su questa condizione, sulle sue implicazioni e sul ruolo che la madre deve avere nella società è l’unico modo per trovarle un posto nel nostro sistema di valori e per vivere, finalmente, una maternità libera da tensioni e condizionamenti.