Uno spettacolo intelligente e moderno, che ci interroga sul nostro presente senza pretendere di darci risposte
Lo spettacolo che Marco Paolini porta in scena al Piccolo Teatro Strehler, per la regia di Gabriele Vacis, è una partita a scacchi con gli dei e con noi stessi, in cui ogni mossa viene studiata a tavolino per giungere a un’unica conclusione.
L’Ulisse di Paolini è un uomo anziano, un po’ rude, quasi volgare, che si muove con fatica e trascina con sé un remo. Così gli è stato ordinato per volere divino.
Non il solito Ulisse quindi, non l’eroe scaltro che tutti conosciamo, non l’uomo valoroso che grazie al suo ingegno ha vinto la resistenza di Troia, non l’incantatore che con le sue parole sapeva far tacere un’intera sala.
Secondo la profezia di Tiresia, il viaggio di Ulisse non sarebbe finito con il ritorno a Itaca ma soltanto quando l’eroe, appesantito dal remo con cui lo vediamo aprire la scena, non avesse trovato nel suo vagare un uomo che l’avrebbe interrogato su quell’oggetto liberandolo dal suo vagabondare.
Soltanto allora l’avrebbe colto una morte “dal mare”, su cui abbondano racconti e ipotesi. Noi lo cogliamo nel momento in cui si compie la profezia e, nel suo dialogo con il pastore che gli ha posto la fatidica domanda, scopriamo tutto il passato che ne appesantiva il cammino.
L’eroe che emerge dai racconti autobiografici di questo vecchio Ulisse è un eroe, per dirla come la direbbe Foscolo, “bello di fama e di sventura”.
Si percepisce il rimorso, nella voce di quest’uomo che ha vinto una città, ucciso uomini, visto morire compagni e raggiunto la vendetta della sua casa, ma non riesce ancora a “perdonare” il capriccio degli dei.
Perché il centro di questo spettacolo non è la gloria di un eroe, il vero cuore della narrazione sono gli dei, irrazionali, volubili, appassionati, tifosi, scaltri, manipolatori, incostanti. Così temuti e venerati eppure così invidiosi della misera sorte umana, mortale e finita.
A conquistare, in questo spettacolo, è la musica, una colonna sonora originale composta da Lorenzo Monguzzi. Ogni passaggio ha la sua chiave e il suo mistero, ogni azione la sua lingua, ogni episodio la nota giusta. C’è la voce meravigliosa di Saba Anglana che accompagna il racconto di Ulisse, malinconico e stanco nei suoi panni gloriosi; c’è un greco antico che ritorna e ricama suoni sull’uomo dal multiforme ingegno; c’è lo strazio di una lingua che ci appartiene anche se non la parliamo più, sopravvissuta e (ancora) incantevole dopo secoli.
Un po’ come gli eroi cantati da Omero, sopravvissuti alle peripezie che gli dei avevano deciso di riservare loro, così, per gioco, per interrompere la monotonia dell’immortalità. L’Ulisse di Paolini è davvero un moderno sopravvissuto, un eroe che è stato per tutta la vita nelle mani di divinità impietose, abituato a trovare con la furbizia una strada per la sopravvivenza.
Nel tempo degli dei si interroga sulle divinità odierne: noi stessi. Gli dei di Omero hanno lasciato posto all’uomo moderno, attrezzato per la battaglia quotidiana, giudice in grado di preparare sentenze su altri esseri umani. Gli dei capricciosi sono spariti e al loro posto ci siamo noi.
Abbiamo tutto, eccetto l’immortalità, eppure crediamo ancora nei confini e vogliamo costruirci un Olimpo in cui regnare indisturbati. Abbiamo tutto ma ancora non troviamo il coraggio di accogliere. Abbiamo tutto ma nutriamo la nostra stessa paura con pregiudizi troppo vecchi, persino per Omero.
Paolini ci lancia una provocazione, mettendo in discussione l’eroe omerico per eccellenza e mostrandoci un lato diverso del suo essere uomo: quello riprovevole e sofferente di chi ha obbedito a un destino.