Arriva sugli scaffali per Einaudi ‘Sul tetto c’è Mendelssohn’ romanzo corale del grande ceco Jiří Weil: la tragedia dell’occupazione nazista, i piccoli eroismi e i risvolti ironici della gente di Praga, al centro della Storia e delle storie di ogni giorno
Reinhard Heydrich, sublime architetto della Soluzione Finale, Reichprotektor di Boemia e Moravia, assiste a un concerto mozartiano e tiene un discorso nel bellissimo Rudolfinum di Praga trasformato in centro della cultura tedesca. Esce, alza gli occhi e rimane esterrefatto: sul profilo del tetto svetta (anche) una statua di Felix Mendelssohn, lurido compositore ebreo. “Una negligenza ancora più grave dell’alto tradimento. Com’è possibile che non abbiano ispezionato il palazzo?”. Tiratela via! Ordina. Un impiegato del comune, aspirante SS, è investito del compito di tirar giù l’oltraggio ma, soffrendo di vertigini, si affida a un paio di messi comunali. Bene. Però, Mendelssohn, qual è? L’aspirante SS non lo sa, ma ricorda una lezione di “dottrina della razza” in cui si insegnava la regola infallibile: gli ebrei sono quelli con il naso grosso. Eccolo! I due girano la corda attorno al collo della statua. No! Quello è Wagner, grida il quasi SS. Eppure è il musicista con il naso più grosso, si difendono i due. A chi chiedere aiuto? Non certo a Heydrich: equivarrebbe a farsi fucilare. Nemmeno al comando delle SS e della Gestapo (e nemmeno lì ci sarebbero molte probabilità di trovare qualcuno che ne sappia qualcosa). Si preleva di forza un vecchio saggio del Centro ebraico, terrorizzato, ma conoscere tutto del Talmud non significa sapere che faccia abbia l’innominabile tedesco che non è tedesco. Il Potere, si sa, è innanzitutto stupido.
C’è la più arguta ironia praghese nel primo episodio di Sul tetto c’è Mendelssohn, gioiello della letteratura ceca finora inedito in Italia e da poco pubblicato nella traduzione tutta da godere di Giuseppe Dierna, allievo di Ripellino (Einaudi, 291 pagine, 20 euro). Sul tetto c’è Mendelssohn è la densa appendice di Una vita con la stella (Rizzoli, 1992), capolavoro consacrato di Jiří Weil: doppio sguardo lucido, ma intriso di poesia, sul mondo capovolto dell’occupazione nazista, dove “il giorno può trasformarsi in notte”.
Weil nasce nel 1900 vicino a Praga, in una famiglia ebrea ortodossa, abbraccia presto l’ideale comunista, si iscrive al partito, si trasferisce a Mosca, diventa traduttore modello di Pasternak, Marina Cvetaeva e Majakosvkij, lavora nella sezione ceca del Comintern ma non si trattiene dal criticare le purghe staliniane. Nel 1935 viene avviato verso le destinazioni note ai liberi pensatori e agli oppositori, viene rispedito a Praga perché cittadino ceco, finisce nel contro-inferno della dominazione nazista, evita il peggio simulando la propria morte con un gesto che ha dell’umoristico e del magico: deposita una cartellina personale e una lettera di addio sulla riva della Moldava e scompare fino alla fine della guerra. Tornato “vivo”, nel 1945 comincia a scrivere ma nulla gli è consentito di pubblicare sotto il regime staliniano. Si arrangia lavorando al Museo ebraico e solo dopo la morte dell’Impavido (1953) riesce a pubblicare Una vita con la stella. Sul tetto c’è Mendelssohn uscirà postumo.
Il miglior recensore del talento di Weil è Philip Roth, che ammira “il linguaggio disadorno e disarmante della cronaca familiare… l’abilità nel descrivere il dolore e la ferocia con estrema asciuttezza, che è di per sé il più efficace commento a ciò che di più orrendo può riservare la vita”. Roth lo scrive a introduzione di Una vita con la stella, ma la qualità della scrittura è la stessa in Sul tetto c’è Mendelssohn, romanzo a più voci in cui protagonista è la gente di Praga. Una storia fatta di tante storie che incalzano in capitoli concisi e appassionanti come romanzi a sé. Storie di quotidiana resistenza al sopruso fatta legge, alla discrezionalità di un apparato brutale che non deve rispondere a nessuno, giudice inappellabile di ogni atto che venga ritenuto reato, cioè tutto.
Ogni giorno diventa il teatro di piccoli eroismi. Una coppia di anziani nasconde due ragazze nella stanzetta celata dietro un armadio, piccole Anna Frank senza diario se non quello scritto per loro da Weil; storia che ci tiene legati fino all’ultima pagina.
Si resta senza fiato immersi nel dramma di chi è obbligato a collaborare all’impiccagione di concittadini che, si sa, non hanno commesso nulla: innocenti usati come strumenti di terrore nel tempo in cui si vive nell’incubo di finire sui treni che vanno a Est – tutti sanno che esistono -, verso luoghi misteriosi di cui una sola cosa è certa: da lì non si torna. Weil ci attira inesorabile nel senso di colpa di chi contribuisce a decidere “a chi tocca”, sapendo che domani toccherà a te. Il narratore è maestro nel descrivere la pochezza di uomini che non sarebbero nulla in una vita “normale”, nella quale valessero i criteri più elementari del merito, senza una divisa che concede l’onnipotenza. Ma domina la legge della sopravvivenza, imposta da esseri disumani che Weil chiama con nome indistinto, orgoglioso, sprezzante: “loro”.
Gli ebrei sono l’oggetto privilegiato delle attenzioni naziste, ma un evento fa girare la ruota della sfortuna per tutti. Il 4 giugno 1942, Heydrich, che la gente vede ogni giorno viaggiare sulla Mercedes Benz a capote aperta, sicuro dell’immunità, viene ucciso da un piccolo commando istruito in Inghilterra. E la repressione si fa più inesorabile nel processo di sostituzione etnica progettato non solo per cancellare la cultura ceca, ma per sopprimere due terzi della popolazione.
Il tempo di cui narra Sul tetto c’è Mendelssohn sono gli ultimi anni dell’occupazione prima della caduta del Reich, il che rende ancora più fatale il destino di chi, per pochi giorni, come nel finale, toccante, non riesce nell’impresa quasi compiuta di sopravvivere alla stupidità del male.