In “Nessi” il giocoliere delle parole alza il tiro e alterna, incrocia, scherza, fa il funambolo con la cultura bassa e alta in uno stile personalissimo che conquista e diverte. Ma dietro l’ombra della metafisica…
L’arte di Bergonzoni cattura gli spettatori con una rete verbale che travolge, scuote, sorprende, destabilizza e diverte. I suoi spettacoli sono un flusso di coscienza che zampilla senza freni lasciandosi trasportare da suggestioni linguistiche che, in una geniale comicità dell’assurdo, lontano dallo scontato e dall’immediato, rivelano altri sensi, altri mondi, altri sguardi. E con Nessi si va letteralmente oltre, spingendosi ancora più in alto – o nelle profondità del “più in basso”, del “dentro” – verso il metafisico.
La voce di Bergonzoni arriva ancor prima del suo corpo, nell’oscurità della sala, a sipario chiuso, in un prologo fuori campo in cui echeggia fin da subito l’importanza, nel rapporto con l’altro, dei fili, dei collegamenti, dell’energia e dell’illuminazione. Bergonzoni – che cura la regia insieme a Riccardo Rodolfi – compare in una scenografia minimale e fortemente simbolica: tre incubatrici da nursery, che muove lungo le direttrici del palco in un vero e proprio “giro di vite”, sopra cui pende un cerchio. E Nessi è proprio questo, il racconto del circo della vita – o del cerchio della vita – dove tutto è connesso, dove tutti sono tutto e dove tutti sono tutti, dove in un’animata confusione circense ne esce una Babele in cui nessuno sa più che lingua parla.
Raccontandoci di un divertente incidente stradale, Bergonzoni riesce a farci vedere l’invisibile, demiurgo di una creazione che avviene sotto i nostri occhi per pura immaginazione, e popola il palco di protagonisti che – volenti o nolenti, credenti o non credenti, creduti o non creduti… – si trovano a partecipare al grande matrimonio dell’umanità. Ancora una volta, le atmosfere surreali svelano l’infinita potenza della realtà, troppo spesso costretta negli spazi angusti dell’utilità, della necessità, della fretta e dell’immediatamente percepibile. Un viaggio che oltrepassa lo spazio e il tempo fuggendo dalla follia dei nostri giorni, fatta di discorsi di calciatori, reality culinari e politiche sterili, verso una nuova follia che è apertura totale al mondo – anzi, all’universo – nella convinzione che fin da quando nasciamo tessiamo una trama e tiriamo fili che ci legano agli altri (non solo ai “prossimi” e non solo “qui e ora”).
Al di là di un’umanità sopita, sempre in procinto e mai veramente nata, anestetizzata da politica, tv e social network, Bergonzoni squarcia il velo e ci mostra un iperuranio in cui le parole recuperano tutta la loro profondità e l’anima può intuire l’ordito dell’esistenza, dove tutto è connesso e in cui non valgono più i “io non sono mica…”, le citazioni dei grandi pensatori e il demandare ad altri. È il momento di superare gli anestetizzanti gas della contemporaneità e iniziare a suonare anche noi il “piano di Dio”, con una potenza che non è potere ma energia vitale e forza creatrice. È il momento di comprendere che noi, e solo noi, siamo il governo di noi stessi e che ogni giorno votiamo, in qualsiasi cosa facciamo o pensiamo.
In questo spettacolo la parola, il pensiero e il corpo fanno tutt’uno, poiché davvero nulla può sussistere separatamente, e tutto si intreccia. La fisicità di Bergonzoni è elettrizzata e vibrante in un flusso continuo che è pieno di una ricerca personale che – se tutto è davvero connesso – non può che dirci qualcosa di universale, qualcosa che tocchi anche le nostre corde e ci faccia vibrare: lasciamoci andare, apriamoci alla vita e facciamo nesso con chiunque, ovunque e senza precauzioni. E, allora, “t-essere o non t-essere”? È il momento di decidere, ma se il momento è arrivato, qualcuno lo faccia entrare o passa e tanti saluti.
(Il ritratto di Bergonzoni è di Valentina Sala)