Cos’è la neuroestetica, alla ricerca di affinità e assonanze tra chi compone e chi fa scienza: cosa vuol dire in entrambi i sensi pensare un suono, cercarlo come intenzione, scovarlo e scriverlo in partitura.
Ottantacinque miliardi di cellule nervose, ciascuna in contatto elettrochimico con dieci mila altre cellule, per un totale di dieci “alla quindici” connessioni sinaptiche: scrivete uno, seguono quindici zeri. E dispersi tra queste connessioni ci siamo proprio noi, con i nostri problematici io, consci o inconsci che siano. Tutto qui? Decenni di psicanalisi e non siamo altro che cifre? Nient’altro che gli output di un arido calcolo combinatorio? Così, se già l’astrofisica delle galassie ci dà problemi di autostima, quando si parla di cervello rischiamo davvero di sentirci insignificanti. Ma non sarei così categorico: va detto che se siamo solo dei numeri, almeno siamo numeri molto grandi.
Più sezioniamo il cervello, più diventa irresistibile la nostra voglia di capire da dove esca ogni suo prodotto, per seguirne a ritroso il tragitto. E così i cinque sensi, da acerrimi rivali della vera conoscenza, diventano l’unica guida in grado di scortarci, su binari nervosi, alle ragioni più profonde di ogni nostro gesto. Quando penso al neuroimaging, che macchia di malsane tonalità fluo il sobrio grigio-tortora che abbiamo nella testa, penso al ritratto più intimo e imbarazzante che si possa fare di qualcuno: mi spaventa come i bambini del Villaggio dei dannati che sanno leggere nel pensiero.
Eppure dalle nostre reazioni fisiologiche alle più sofferte decisioni e irrevocabili volontà, l’uomo, con la sua personalità, è solo chimica. Facciamocene una ragione.
Ma quindi sarà chimica l’arte stessa? Chi oserebbe mai chimicizzare Beethoven? E Kandinskij? Mi volete dire che anche Proust…? Non oserete farlo con Szymborska o Baudelarie? Come si può violentare così qualsiasi verso, colore o schizzo su tela, o accordo sulla tastiera. Non ci si crede che opere di geniali menti creative prendano forma da bui rigagnoli nascosti al di là dei loro occhi e orecchie, dove emergono come scintille elettriche. In quale di questi fiumi carsici starà il «Cantami o Musa»?
Così dalla neuroscienza si può arrivare addirittura alla neuroestetica, branca della scienza del cervello che prova a invadere i domini dell’arte per includerli nei suoi disegni sinaptici.
Di più: gli artisti diventano neurologi inconsapevoli, capaci di solleticare con forme e colori il nostro sistema dopaminergico, che sprigionerà simpatiche sostanze piuttosto divertenti e non illegali. Ed ecco quindi che il Trattato della pittura di Leonardo individua con quattrocento anni di anticipo il principio di complementarità dei colori. E le cattedrali di Monet sono vere e proprie sensazioni visive su tela, documentazioni scientifiche di ciò che appare. Queste indagini sono di Semir Zeki, nella sua cervellotica Visione dall’interno uscito nel 2003 per Bollati Boringhieri, tentativo riuscito di includere le neuroscienze nel dibattito sulle nuove teorie estetiche. Zeki è un coraggioso radicale, che esagera le sue tesi pur sapendo di incorrere in accuse di riduzionismo scientifico, solo perché si è preso la responsabilità di richiamare chi si occupa di estetica: non di sole emozioni vive uno teorico dell’arte, quindi che si studi un po’ di chimica.
Un passaggio più recente del discorso, stavolta musicale, è quello tra il neurobiologo Jean-Pierre Changeux e il compositore Pierre Boulez, scomparso lo scorso gennaio, forse il più razionale tra gli analitici, non a caso indeciso in gioventù tra il conservatorio e la facoltà di matematica. I neuroni magici è il brutto titolo di una splendida conversazione musical-neurologica pubblicata da Carocci. Alla ricerca di affinità e assonanze tra chi compone e chi fa scienza: cosa vuol dire in entrambi i sensi pensare un suono, cercarlo come intenzione, scovarlo e scriverlo in partitura.
E così veniamo a sapere che Darwin non è al lavoro solo su piante e animali, ma anche sui percorsi neurali e perfino sull’ispirazione artistica: la selezione scarta tutto il materiale superfluo e tiene solo quel che serve. Poi c’è la prerappresentazione spontanea di una certa rete cerebrale, che è capace di scatenare desiderabili neuroni di ricompensa se si riesce a realizzarla. O ancora si dice che, se in un primo momento ascoltare una novità musicale ci disorienta, col tempo ci abitueremo sempre di più, proprio come i cani di Pavlov.
Changeux è un interlocutore intelligente e Boulez sta al gioco e lo segue attraverso le sue analogie. Ma su certe cose resta intransigente. Ad esempio, se si può parlare di progresso scientifico, in musica non ha alcun senso: «Si tratta di rinnovamento, non di progresso. Non si fanno progressi rispetto a Mozart». Ci si confronta con i modelli forniti dalla propria epoca storica, che ovviamente sono temporanei: per andare avanti serve solo cambiare «punto di vista». E ogni volta che Changeux riferisce di esperimenti su come il cervello reagisce a dei suoni, come accordi dissonanti o timbri insoliti, Boulez si infervora per come gli sperimentatori semplifichino: se si perde il contesto, si elimina proprio «tutto ciò che permette di comprendere qualcosa». Certi argomenti di Boulez sono talmente raffinati che nel libro, più che colpire quanto Changeux sappia di musica, colpisce quanto Boulez capisca di scienza.
L’intelligenza de I neuroni magici sta nel fatto che non si voleva arrivare a formulare risposte definitive, da qui la forma di dialogo. La discussione nasce e si sviluppa rimanendo aperta, intrecciando chimica e invenzione musicale con l’idea che oggi, per parlare di estetica, non si può non parlare di cervello. Ma gli argomenti scientifici vengono usati solo come indizi ulteriori, capaci anch’essi di avvicinarsi a qualcosa di magmatico e inafferrabile. Nessuno vuole fare della scienza l’unico portale di accesso: quando gli scienziati alzano la voce, di solito è perché prima nessuno li ascoltava, non perché vogliano l’esclusiva.
La scienza è certamente una strada ben lastricata, ma sa di avere accanto altri percorsi. A ogni modo, il tratto più interessante di questi testi è che non nascondono i difetti di questa strada, che quindi va guardata con indulgenza, proprio come il primo della classe che ogni tanto porta a casa un votaccio: è un buon segno. Vista in questo modo, forse tutta la chimica che abbiamo dentro non ci sembrerà più così male.