Due sedi per una grande mostra: al Museo del Novecento e alle Gallerie d’Italia è in scena “New York, New York. Arte italiana: la riscoperta dell’America”, per raccontare un secolo di rapporti e scambi, tra viaggi d’artisti, incontri, esposizioni da una parte e dall’altra dell’Atlantico. E la bilancia dei debiti e dei crediti non pende certo da un lato solo.
Nel 1949 il MoMA organizza una mostra dal titolo XX Century Italian Art. Presenta al pubblico newyorkese il futurismo e la metafisica, i due movimenti italiani più celebri nel mondo. Ma i curatori, il direttore del museo Alfred Barr e il suo assistente James Soby, inseriscono anche quattro giovani artisti: Afro, Cagli, Scialoja e Fontana.
La mostra è un atto politico: si svolge a un anno dal trionfo elettorale della Dc e costituisce in qualche modo il riconoscimento all’Italia dello status di alleato fedele, già concretizzatosi con il varo del piano Marshall.
Ma i rapporti Italia-Usa hanno un fondamento reale, non occasionale.
La “riscoperta dell’America” avviene soprattutto grazie ad alcuni scrittori: Pavese e Vittorini sopra tutti. La cultura legata al Partito Comunista inaugura negli anni Quaranta quella schizofrenia che ha caratterizzato il rapporto con l’America fino ai giorni nostri. Da un lato una sostanziale ripugnanza per il modello capitalistico, consumista, militare e guerrafondaio. Dall’altro una profonda attrazione per la grande arte popolare d’oltre oceano: il jazz, il thriller, il cinema soprattutto, ma anche l’arte e la letteratura.
La scoperta dell’America nel Novecento la fanno i due artisti più egocentrici, Depero e De Chirico, un designer artista, il sardo Nivola, e l’ebreo Corrado Cagli che raggiunge gli States in fuga dalle leggi razziali. Nessuna di queste esperienze è particolarmente riuscita. “Dollari e dolori” scrive Depero. Il modello americano prima della seconda guerra non è ancora vincente e viene vissuto dagli italiani in modo greve. Soldi, rozzezza e nessuno charme.
Diverso è invece il discorso nel dopoguerra. L’arte americana – quasi esclusivamente newyorkese – propone adesso un modello di redenzione. Volgare, aggressiva, di massa è la politica economica degli Stati Uniti. Raffinato, individualista, antieroico è l’espressionismo astratto, la corrente pittorica che domina gli anni Cinquanta. Irresistibilmente attraente.
Ma il rapporto artistico tra i due paesi non è esclusivamente colonialistico. Anzi. Tra la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta tutti gli artisti americani visitano il Belpaese. E non guardano soltanto gli artisti gloriosi del passato. Soprattutto a Roma incontrano l’avanguardia italiana. Nel 1993 Germano Celant realizzò a New York la mostra Roma New York 1948-1964, che ha delle analogie con quella attualmente in corso alle Gallerie d’Italia e al Museo del Novecento. In quell’occasione Celant mise chiaramente in luce il debito che alcuni artisti americani contrassero con quelli italiani: Rauschenberg con Burri (che durante la guerra aveva vissuto diciotto mesi di prigionia in America), Klein con Scialoja, la Pop art con la scuola romana di Tano Festa e Schifano.
Perché, fuori da ogni discussione, tramontata l’École de Paris e la tradizionale avanguardia europea d’anteguerra, era l’arte italiana l’unica veramente in grado di competere con quella americana.
E il vero miracolo italiano, prima ancora che economico, fu sostanzialmente, caratteristicamente direi, culturale: come, dopo vent’anni di fascismo e cinque di una guerra che aveva lasciato il Paese distrutto, fosse emerso un gruppo di intellettuali che diede vita alla Costituente, alla letteratura che si raccolse intorno alle edizioni Einaudi, a una generazione di artisti di avanguardia, a una schiera di designer che trasformarono il modo di abitare, a un gruppo di registi che con pochi mezzi rivoluzionarono il cinema, rimane un fenomeno davvero eccezionale.
A irrobustire queste tendenze contribuirono anche alcuni fattori contingenti. Le gallerie newyorkesi Viviano, Janis, Malborough (che aprirà per breve tempo anche una filiale a Roma) che espongono spesso gli artisti italiani, i tanti viaggi in America che questi fanno, alcune presenze italiane nelle università statunitensi (Nivola, Mirko Basaldella fratello di Afro, Dorazio) e alcune esperienze in Italia: fondamentale quella dei coniugi Gasparo Del Corso e Irene Brin proprietari della galleria dell’Obelisco e di Peggy Guggenheim a Venezia.
Irene Brin è la corrispondente italiana di Harper’s Bazar e il Made in Italy le deve moltissimo. Convince Helena Rubinstein ad ambientare una sua collezione tra le opere di artisti italiani (Marini, Afro, fotografa Avedon).
E l’arte italiana diventa una moda: Robert Aldrich in Un bacio e una pistola, Billy Wilder in Sabrina e in L’appartamento ambientano diverse scene tra opere d’arte italiane assurte a simbolo di scelte raffinate e controcorrente.
La mostra esprime questo periodo magico con straordinaria efficacia. Quasi tutte le opere esposte sono state in mostre o in collezioni americane. E la scelta e la qualità delle opere è davvero notevole.
Non solo negli artisti di maggiore rilievo: Morandi, Afro, Scialoja, Burri, Fontana, Capogrossi, Marino Marini. Ma anche negli altri meno, come dire?, scontati: Virgilio Guidi, Guttuso, Sanfilippo, Carla Accardi, Alberto Viani, Fausto Pirandello, Giuseppe Santomaso, Morlotti, Emilio Vedova, Dorazio, Angelo Savelli, Salvatore Scarpitta, Edmondo Bacci, e infine i più giovani Tancredi, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella, Mario Schifano.
Poi nel 1964 sbarca alla Biennale la Pop Art. Là sì con una potenza di mezzi che sconfina nel colonialismo. Emilio Isgrò che seguiva la mostra come giornalista ricorda: «Fu un impatto impressionante e ci costrinse a ripensare tutto il nostro lavoro». L’idillio in qualche modo si rompe: con la Pop – sebbene, forse, covata prima tra Roma e Londra – il mercato diventa globale ma quasi esclusivamente a stelle e strisce.
Ripassando le opere prima di lasciare la mostra mi concedo una considerazione: se paragoniamo il gesto di Pollock a quello di Fontana – ed escludendo l’inarrivabile lituano-americano Rothko – Scialoja, Burri, Afro, Vedova che cos’hanno da invidiare ai Motherwell, Kline, De Kooning?
È una riflessione che devo a questa mostra.
New York, New York. Arte italiana: la riscoperta dell’America, a cura di Francesco Tedeschi, Milano, Museo del Novecento e Gallerie d’Italia, fino al 17 settembre.
Immagine di copertina: Fortunato Depero, Grattacieli e Tunnel, 1930,