Una storia d’amore a distanza? Un romanzo epistolare (ma fatto con lettere “vere”)? Un gioco simbolico di riconoscimento (e di reciproco cambiamento)? Trent’anni fa arrivava in libreria “Griffin & Sabine” di Nick Bantock, pubblicato in Italia da Sonzogno: enigmatico, lieve, seduttivo, anticipatore. Un successo da ricercare per bancarelle.
Prima di Lost.
Prima che J.J. Abrams, il suo regista, si facesse venire l’idea di un libro che dovesse essere letto in verticale, oltre che in orizzontale – ovvero come una stratigrafia di interpolazioni, e che Doug Dorst diventasse la penna di questa idea, dando materialmente corpo a S. La nave di Teseo.
Prima perfino di quel caso clamoroso che è stato Casa di foglie di Mark Z. Danielewski.
Prima che prendesse consistenza, insomma, quella cosa che viene chiamata letteratura ergodica, ovvero l’esperimento di un romanzo concepito come sfondamento dell’unidirezionalità dell’atto della lettura, che costringe il lettore a interagire con bigliettini, finti documenti, resoconti a mano, ritagli di giornale, perfino tovaglioli da bar scarabocchiati “al volo” e inseriti ad arte tra le pagine: ecco, più di vent’anni prima, tutto questo era già accaduto.
In un piccolo libro di enorme successo.
Il suo nome, nell’edizione italiana di Sonzogno – oggi purtroppo fuori catalogo – è Griffin & Sabine – Una straordinaria storia d’amore, ma il sottotitolo originale è An extraordinary correspondence: dove la parola corrispondenza esercita fin da subito il suo ambiguo doppio significato, di carteggio e di consonanza, ovvero di connessione tra elementi.
Non è, naturalmente, un caso, perché, se a un colore emotivo si può ascrivere l’intensa parabola epistolare dei due protagonisti, questo è proprio quello della seduzione. E la seduzione, prima di tutto, è il mistero del riconoscimento di sé nell’altro.
Dunque qualcosa di tremendamente complesso.
Il dispositivo narrativo che fa iniziare tutta la vicenda è avvolgente: immaginate di immaginare. Voi sapete che ciò che la vostra testa produce (segni, pensieri, correzioni, retro-pensieri) è probabilmente la cosa più privata che vi riguarda: lì, dove le immagini si danno, siete gli spettatori unici del “farsi” della vostra creatività – dunque, della vostra identità, e del vostro modo di essere.
Bene. Ora immaginate che qualcuno che non conoscete abbia accesso a vostra insaputa al vostro schermo interiore, che lo veda proprio nell’atto preciso della trasformazione da pensiero a segno, e decida un giorno di mettersi in contatto con voi – scrivendovi, in sostanza: ciao, vedo quello che tu immagini. Come ne rimarreste?
Ecco: questo è l’innesco della storia. Una intuizione di quelle che possono cambiare la vita.
In effetti, fino al 1993, Nick Bantock era stato un grafico della periferia depressa di Londra: fatto salvo il periodo del college d’arte nel Kent, il suo paesaggio era rimasto sempre lo stesso e tutta la sua carriera si era concentrata sulla produzione di copertine di libri. A 44 anni ne aveva già firmate trecento – e possiamo anche supporre (ma è solo una supposizione) che cominciasse a interrogarsi sul futuro del suo lavoro artistico, quando l’Intuizione si affacciò nella sua testa.
Griffin & Sabine è stato l’esordio letterario di Nick Bantock, ma è stato anche – con precisione – il libro lo ha fatto felicemente deragliare.
Tracce di quello che era stata una esperienza forse non esaltante nel mondo dell’arte e una insofferenza nei confronti delle tecniche al tempo in voga (soprattutto il geometrismo) si possono probabilmente riscontrare in alcuni passaggi del suo libro, quando il suo alter ego, Griffin (grafico lui stesso, alloggiato in una grigia solitudine nell’East London) confessa di vergognarsi dei suoi esperimenti di gioventù, che considera vacui e sterili.
Difficilmente Bantock avrebbe potuto immaginare, al momento dell’uscita, che il suo libro sarebbe stato tradotto in tredici lingue e avrebbe avuto un successo tale da guadagnarsi produzioni-parodia (Sheldon and Mrs. Levine, An Excruciating Correspondence di Sam Bobrick e Julie Stein), fino a richiedere un primo e quindi un secondo sequel – diventando, di fatto, una trilogia.
È un verso di Wiliam Butler Yeats, tratto dal poema The Second Coming, visionario e sinistramente profetico per il tempo in cui venne scritto, ad essere scelto da Bantock come dedica iniziale: il Secondo Avvento intravisto dal poeta a due anni dalla fine del primo conflitto mondiale, e preparato da una umanità sempre più disperata e feroce, è quello di un Anticristo distruttore.
Ruotando e roteando nella spirale che sempre più si allarga
(la traduzione è di Roberto Sanesi) compare, senza citazione della fonte, in una sorta di contro – controcopertina.
Nelle prime due pagine interne alla legatura vengono sovrapposte in colonne alternate pezzi della mappa della metropolitana di Londra e di una cartina della National Geographic Society relativa all’Oceano Pacifico; la seconda coppia di pagine riporta solo i nomi dei due protagonisti, Griffin e Sabine, e, appena sotto, le parole di Yeats.
Il dove e il come della storia, insomma. Sovrabbondante e diametralmente opposta è la temperatura (anche interiore) dei luoghi: la casa di Griffin, in un sobborgo urbano piuttosto triste, ad ascoltare il suo unico abitante, contro l’esotico e non meglio localizzato arcipelago delle Sicmon Island, Sud del Pacifico, per la vita colorata di Sabine; sospeso nelle parole di un verso misterioso, che prefigura viaggi allontanamenti e sdoppiamenti, è il rapporto tra i due.
Tutto quello che Griffin e Sabine vivono nelle pagine successive passa di forza attraverso questa dimensione del doppio, della corrispondenza tra visibile e occulto, tra immaginato e immaginabile.
In mezzo – insieme spettatore e terzo attore – sta chi legge la storia.
“L’accesso alle lettere, contenute in vere buste postali, – scrive in un saggio Maria Grazia Sindoni – non è immediato e soprattutto non coinvolge solo aspetti cognitivi dei processi di lettura. In altre parole, il lettore deve sottoporsi ad un vero e proprio percorso fisico e sensoriale prima ancora che intellettuale e cognitivo, cioè deve aprire le buste, scartare le lettere, aprirle, spiegarle e, non ultimo, decodificare i segni grafici della calligrafia dei personaggi”.
Mentre Sabine utilizza subito (e sempre) il suo corsivo, Griffin altalena uno stampatello minuscolo molto regolare a lettere battute su una macchina da scrivere, il cui testo risulta emendato a mano da correzioni a penna.
C’è poi un’altra questione.
Una volta aperti, e letti, prima di passare a quelli successivi ci si sente tacitamente spinti a ripiegare i fogli e rimetterli via tali e quali nelle buste in cui li si è trovati: esattamente come quando si legge di nascosto la corrispondenza altrui.
Ecco che il lettore, per forza di cose, diventa un collaboratore alla ricostruzione della relazione tra Griffin e Sabine, e lo è in modo laterale (un po’ spia, un po’ voyeur, un po’ complice) – sa di entrambi, ma procede per compensazione immaginativa.
Mentre è più comprensibile, quando non dichiarato, immaginare la situazione in cui Griffin compone i suoi testi, ma molto più misterioso capire da dove gli arrivino le illustrazioni, al contrario nel caso di Sabine sembra palese che l’ispirazione per i disegni (soprattutto per i primi) derivi dalla natura che la circonda, mentre il contesto in cui lettere e cartoline vengono messe nero su bianco risulta sempre celato.
Tutti i documenti di Griffin sono datati – quelli di Sabine, invece, mai.
E, per concludere, con molta accuratezza i timbri postali sulle missive di lei risultano sempre illeggibili, o impressi fuori dai margini del documento: il gioco di Nick Bantock, in apparenza così leggero, è in realtà un libro in cui nulla – né le immagini, né i titoli delle opere pittoriche, né il cursus delle scritture dei personaggi, né i testi – è lasciato al caso.
Tanto per dirne una: di rimando ai versi iniziali, la casa-studio del protagonista risulta ubicata in una ben precisa Yeats Avenue. Ma, più in generale, lo Spiritus Mundi, l’anima universale evocata dai versi di The Second Coming, percorre l’intero carteggio di Griffin e Sabine, emergendo attraverso le tavole e le forme dipinte, che richiamano frammentariamente le parole di Yeats rendendole in certo modo visive – uccelli, occhi vuoti, tenebre che scendono, caos, innocenze perdute.
All’inizio, dunque, c’è una cartolina.
È Sabine a fare il primo passo. L’ingresso nella vita di Griffin è pieno di impliciti: “Finalmente – scrive lei – sono riuscita a mettermi in contatto con te!”.
Avverbio e punto esclamativo ci inducono a pensare che ci sia già stato un precedente (ed è, questa, anche la prima reazione di Griffin), soprattutto perché Sabine mostra di possedere una conoscenza molto intima del lavoro pittorico di lui, che commenta a distanza: bene avere sostituito in Drinking like a fish un calice con un bicchiere da vino, si complimenta – l’impatto è migliore.
Segue indicazione di casella postale alla quale inviare l’illustrazione sollecitata.
Griffin è spiazzato: la sua risposta, sul retro dell’immagine richiesta da lei, è impacciata; forse ha un vuoto di memoria? Eppure non gli pare di avere reso partecipe nessuno della prima versione del quadro.
Sabine indugia ancora un poco: lo osserva da molti anni ma solo allora è riuscita a rintracciarlo, scrive. E poi aggiunge un’altra domanda intenzionalmente inquietante: come mai ha scurito il cielo nel quadro che raffigura il canguro con il cappello?
“Gentile signorina Stroheim” inizia la cartolina successiva: Griffin passa alla difensiva, e dal “tu” prende le distanze con il “lei”. Il motivo è presto detto: il cielo dietro il canguro “è rimasto blu cobalto chiaro per meno di mezz’ora”.
Dunque: la confusione. Il fastidio di sentirsi scoperto da un’estranea – e a propria insaputa. E la reazione – che, però, già rivela il legame: se da un lato Griffin si ritira guardingo, dall’altro, nel poscritto, non riesce a frenare la curiosità di sapere se la sua misteriosa interlocutrice sia o meno l’autrice dei disegni a mano delle cartoline che gli arrivano.
È proprio questo desiderio di sapere che lancia un ponte verso l’ignoto: così, il canguro del disegno di lui diventa la testa della giraffa nella successiva lettera di lei. Da qui inizia l’alchimia della trasformazione, celebrata nella tavola successiva di Griffin (L’alchimista), omaggio ai desideri dell’inconscio, nella quale l’ombra proiettata da un ragazzino si traduce in quella di un piccolo fauno. Il sé e l’altro da sé.
É interessante osservare come i rimandi grafici tra le due voci di questa storia di amore e di corrispondenza, da questo momento in poi, diventino una costante: le forme trasmigrano da una cartolina al dorso di una lettera, dall’interno di un foglio a un francobollo, da un linguaggio all’altro: riconoscibili ma sempre un poco mutate. Ci sono pesci dal corpo d’uomo che si trasformano in lucci, formichieri umani che diventano un’eco di Cyrano, maschere tribali che ricalcano sagome di teste di cani, mezzelune gialle che prefigurano banane che sparano, piume di pavone che subito dopo sono occhi ciechi di uccelli implumi.
Il dialogo è intenso: onirico e bifronte. L’ossessiva ricerca logica di Griffin fa da perfetto contraltare alla misteriosa accettazione di Sabine: e la posta, ovviamente, si alza.
Prima il confronto tra le due infanzie (di solitudine, entrambe, ma diametralmente opposte: abbandono e perdita per quella di lui; rinascita dalla perdita per quella di lei) e tra le origini (lui orfano e risultato di quattro culture differenti, lei sopravvissuta e adottata dopo un incidente aereo), poi il lavoro (Griffin disegna cartoline, Sabine disegna francobolli), e ancora il paesaggio della quotidianità (il grigio, lo studio e Londra per lui; un arcipelago caldo e verde localizzato a due giorni di navigazione dalle isole Salomon per lei).
Mano a mano che la conoscenza epistolare procede, cambia lo stile pittorico di entrambi; le tavole e i colori diventano più simili, interscambiabili – al punto che viene da domandarsi se questo legame a cui aspira la storia altro non sia che quello delle nozze alchemiche (cosa che molti tra i simboli disseminati nei fogli, oltre all’ombra proiettata da Yeats, indurrebbero a considerare).
Nota finale: A Griffin & Sabine fecero seguito Sabine’s Notebook e The Golden Mean. In italiano venne pubblicato il secondo volume, ma non il terzo.
A meno di non trovarli seppelliti in qualche libreria che s’è dimenticata di averli, i titoli compaiono a tratti nel mercato online (per lo più in inglese, e in cofanetto, insieme ai successivi tre libri di Bantock) e nei circuiti di seconda mano.