Cosa ha fatto e cosa ha scritto la critica negli ultimi quarant’anni? Un brillante editoriale in cui si invertono i rapporti tra scrittura, filosofia e arte
L’ermetico charme per il post-strutturalista
fu un’arma di conquista,
Agamben e Deridda
ne furono apripista.
L’affricata postalveolare sorda, consonante,
di Chomsky il cognome rese interessante,
Čičerin, Churchill e Cheeta
ne beneficiarono a vita.
Fa tanto mano pendula di Deleuze la zzzzz,
contessa parigina che sussurra shhhh
su chaise longue e portantina.
I post-strutturalisti Derrida, Deleuze, Lyotard, Chomsky (e i loro italici epigoni) sarebbero solo innocui filosofi che andavano di moda negli anni Settanta – sempre che la filosofia esista ancora: alcuni dicono che si è spenta nella gola di Irma del sogno di Freud. Sarebbero stimati maîtres à penser con buona pace di tutti. Lo sarebbero, se i postpost-strutturalisti, molti dei quali si atteggiano a boss dell’arte contemporanea, non li riesumassero a ogni piè sospinto.
Perché tanta devozione? Forse i baldanzosi, infaticabili curatori non stanno in piedi da soli, forse pensano che questa sia la grande cultura, forse temono che pure l’opera di cui si dicono interpreti non sia così solida, forse sospettano che non si possa dire niente di più brillante su di essa, forse non ne hanno voglia, forse pensano ad altro, forse. Pagine e pagine, citazioni su citazioni scritte per giustificare le opere d’arte. Ma là dove c’è giustificazione non c’è giustizia…
Forse, invece, sarebbe meglio per tutti se costoro dedicassero i loro giorni a leggere Thomas Berhnard e a emulare il protagonista di Antichi Maestri che se ne sta ore e ore seduto davanti a un Tintoretto. O forse sarebbe anche meglio che stessero zitti. “concatenamento collettivo dell’enunciazione”, “indicatore sintagmatico”, “frase nucleare”, “logica del supplemento”, “linearità del significante”, “costrizione fondamentale”, “esclusione inclusiva”, “delimitazione dell’onto-logica”, “grammatologia”, “supplementarietà originaria”, “fonologocentrismo”, “segno-merce simulacrale”, “metafora psicografica”…basta, basta, vi prego. Già i nostri padri queste magiche formulette le hanno sentite temporibus illis. Qualcuna se la ricordano, ma cercano di dimenticare!
Il postpost-strutturalista nel suo international fermento:
«Signori! L’oggi ha il valor del fallimento!»
In passato la bohème: Picasso, spleen e sbornia.
What? Today’s bohème? It’s Venice, California.
I post-strutturalisti si rivolgevano a un pubblico di studenti arrabbiati che faceva finta di averli letti e li citava per affrontare papà e sedurre le ragazze. Ora i postpost-strutturalisti, i postpost-moderni, i citazionisti dei citazionisti asservono biennali, triennali, documenta e bookshop. Non addentano le senili università, ma ciò che di più prezioso vi è al mondo: l’arte.
Ogni volta che un curatore cita l’uxoricida Althusser, così venerato negli anni Sessanta e anche ora, ogni volta che un critico spoglia un artista citando Feyerabend, tutti gli scrittori d’arte (Vasari, Longhi, Baudelaire, Balzac, Dickens, Tolstoj, Apollinaire, Cecchi, Vitruvio, Ruskin, Brandi…) scuotono la testa sconsolati. Occorre essere scrittori per avvicinarsi alle opere, per raccontarle. Gli scrittori sono pittori, i pittori scrivono sulle tele. Anche, meravigliosamente, sulla carta: Ingres, Delacroix, Vallotton, Picasso, Guston…
Il postpost-strutturalista innamorato
da un gioco di potere è ricattato:
Amor significante o amor significato?
Timoroso d’amare, il postpost-strutturalista
dinanzi a Balthus fa l’attivista.
Ragazzina guardavo sul grande schermo grandi baci,
che roba! che imbarazzo! Però Hugh… quanto mi piaci!
Ai tristi signori dell’iconoclastia
consiglio i rossori dell’infanzia mia.
Ecco i movimenti cui negli anni i postpost-strutturalisti stranieri hanno dedicato la loro esistenza:
1) la critica alle istituzioni (o Institutional Critique), ovvero i militanti contro il sistema dell’arte e il plusvalore delle opere (per intenderci, i seggi elettorali allestiti da Hans Haacke al MoMA o il Museo d’Arte Moderna, Dipartimento delle Aquile, aperto da Marcel Broodthaers);
2) il concettualismo, parola che evoca l’ultimo ghiacciato girone dell’Inferno; i circensi artists of the abject, eretti sulle proprie analità e oralità (Mike Kelley si strofina un coniglietto sul sedere mentre defeca, Vito Acconci si dondola mentre una donna gli lecca l’ano).
Il Grand Tour italiano dei postpost, invece, ha gustato l’abbacchio con gli arte-poveri romani, la bagnacauda con quelli nordici e ora mangia sushi con gli illuministi meneghini.
Là dove si sente la merda si sente l’essere!
scrisse Artaud. Mescolando le sue tessere
i post-strutturalisti senza alcun ritegno
elevarono la merda a merce-segno.
Non paghi di tal pegno
i postpost fecero di meglio:
sulla merda altrui costruirono un regno.
Esisterebbero questi artisti senza il loro postpost-ventriloquo? Forse che sì, forse che no. Forse è grazie al loro postpost-ventriloquo che esistono? «Lo schizofrenico è il produttore universale», scrisse Deleuze. E Michael Foucault disse che un giorno il secolo sarebbe stato deleuziano. Tragica profezia.
Concettualizzando l’arte si tenta di sopprimerla. Spiegare l’arte? È proprio la piega che prende il discorso dell’artista ad attrarre; spiegarla è spianarla, una soluzione finale. Farsi spiegare, piegare? Solo un artista che disprezza la sua opera può arrivare a tanto.
Insomma, dietro le pagine dei postpost-strutturalisti c’è il più delicato, complesso, significante, redditizio, fosforescente, minimal, relazionale, capitalista e anticapitalista, scheletrico, adorato… nulla! In molti ricordano la celebre domanda posta da Leibniz: perché esiste qualcosa anziché nulla? E in pochi ne hanno letto la risposta: perché il qualcosa è più difficile a farsi. Il nulla è cialtrone e le estetiche che lo corteggiano lo sono altrettanto.
Farsi terrorizzare dal postpost-strutturalista?
Costui è terrorizzato, altro che terrorista!
Esporsi nel mistero
avocando a sé il pensiero?
Ma sì dai, provaci…