Il documentario “What happened, Miss Simone?”, diretto da Liz Garbus e prodotto da Netflix, ripercorre la vita della grande cantante che, secondo la scrittrice Toni Morrison, era una donna capace di incarnare tutte le donne
I primi fotogrammi catturano il ritorno sul palco di Eunice Waymon, in arte Nina Simone, a Montreaux. Ha lo sguardo spaesato e fissa insistentemente il pubblico mentre si siede al pianoforte. È il 1976, la Storia ha letteralmente travolto il mondo e in questa donna corrucciata e indifesa sembra difficile ritrovare la diciannovenne afroamericana che, con trucco e parrucco al modo delle dive bianche, nel 1959 schiudeva la sua anima cantando I loves you Porgy. Cosa è accaduto in questo lasso di tempo? Da quali cicatrici è rimasta segnata? Che cosa è successo a Miss Simone?
Il documentario What happened, Miss Simone?, diretto da Liz Garbus e prodotto da Netflix, ripercorre la vita di questa artista tormentata, instancabile e straordinariamente carismatica. L’intero repertorio di estratti di concerti, fotografie e registrazioni è intervallato dal contributo della figlia Lisa Simone e dai racconti dei musicisti che hanno avuto il piacere di condividere la scena con Nina dagli esordi.
La “donna capace di incarnare tutte le donne”, come ama ricordarla la scrittrice afroamericana Toni Morrison, è una figura accattivante non solo per il suo grande talento di musicista, ma anche per il ruolo che ha svolto nella storia del popolo nero degli Stati Uniti: questi elementi, uniti alla bellezza del montaggio e al coinvolgente percorso tematico proposto, hanno condotto il progetto alla candidatura per Miglior documentario 2015 all’ultima edizione degli Oscar.
L’aspetto davvero interessante di questo racconto di vita è la volontà di scavare in un animo così complesso. Si assiste all’infanzia di Eunice Waymon, tra le piaghe sociali della discriminazione razziale nel North Carolina degli anni ’40, dove il piccolo prodigio del pianoforte classico attraversava le rotaie del treno per raggiungere la sua insegnante bianca, nella zona benestante della città.
Si tocca con mano la solitudine del “personaggio” Nina Simone, pseudonimo creato perché la famiglia non venisse a sapere che la grande promessa della loro comunità nera si era ritrovata a suonare e cantare nei pub di Atlantic City. Si rimane scossi di fronte al sopravvento dell’icona sulla persona, attraverso le parole della figlia Lisa: «la gente pensava che lei diventasse Nina Simone solo quando montava sul palco, ma lei era Nina Simone 24 ore su 24, era questo il vero problema».
C’è un’oscurità che fa capolino nelle sfumature della sua voce inconfondibile, che è al contempo una voce di donna con una profondità mascolina. Quello stesso timbro tradisce una certa aggressività: guardando il documentario ci si rende conto che la caparbietà ha spinto Nina Simone verso il successo, quando giocava a inserire le lezioni apprese dal mondo del pianoforte classico in pezzi spiritual, blues e jazz, come nel caso di My baby just cares for me.
La caparbietà si è mutata in rabbia negli anni di militanza a fianco di Martin Luther King e, soprattutto, di Malcom X. La rabbia è diventata denuncia nel brano Mississippi Goddamn, fierezza in Young gifted and black, orgoglio in Ain’t got no, I got life, ed è sfociata nella depressione maniacale più cupa, che le ha fatto prendere le distanze dagli Stati Uniti.
È vero che un artista è tale se riesce ad avere la forza e la sensibilità per riflettere il proprio tempo. Purtroppo Nina Simone sembra averne pagato il prezzo fino in fondo: What happened Miss Simone?, assieme all’album tributo Nina revisited uscito lo scorso 10 luglio, è un giusto omaggio al suo spirito brillante.
What happened Miss Simone?, Netflix