Nina Simone, il soul nel cuore e nella pelle

In Musica

Si impose con uno stile unico che fonde classica, jazz, r&b, folk, gospel e soul. Lei lo chiamerà “classical black music”. Nina Simone, nella vita Eunice Katleen Waymon, incise Fodder On My Wings nel 1982, ora ripubblicato dalla Verve, quasi quarant’anni dopo la sua uscita. Un piccolo capolavoro

«Portavo sempre il ghiaccio a Nina Simone. Era sempre carina con me. Mi chiamava “Tesoro”. Le portavo un saccone di plastica grigia pieno di ghiaccio per raffreddare lo scotch. Lei si strappava la sua parrucca bionda e la gettava sul pavimento. Sotto, i suoi capelli veri erano corti come il pelo tosato di un agnello nero. Si scollava le ciglia finte e le appiccicava allo specchio. Le sue palpebre erano spesse e dipinte d’azzurro. Mi facevano sempre venire in mente una di quelle Regine Egiziane che vedevo nel National Geographic. La sua pelle era lucida di sudore. Si arrotolava un asciugamano azzurro attorno al collo e si sporgeva in avanti appoggiando entrambi i gomiti sulle ginocchia. Il sudore rotolava giù dalla sua faccia e schizzava sul pavimento di cemento rosso tra i suoi piedi. Finiva sempre il suo spettacolo con la canzone Jenny dei pirati di Bertolt Brecht. Cantava sempre quella canzone con una sorta di profonda e penetrante rivalsa, come se avesse scritto le parole lei stessa. La sua esecuzione puntava dritta alla gola di un pubblico bianco. Poi puntava al cuore. Poi puntava alla testa. Era un colpo mortale in quei giorni».

Un emozionato Sam Shepard, che in gioventù fu cameriere in un club dove si esibiva la “grande sacerdotessa del soul”, la ricorda vendicare il suo popolo nero, voce tagliente e roca da contralto che, diceva lei, «a volte è ghiaia e a volte caffè con panna», calandosi nei panni della cameriera disprezzata e vessata che, quando arrivano i pirati, indicherà i signori da eliminare. Il libro è Motel chronicles, 1982, in Italia lo ha pubblicato Feltrinelli.

In quel 1982 Nina Simone ha quasi cinquant’anni e un grande avvenire alle spalle. Non incide da quattro anni, da otto non ha contatti con le major discografiche (la Rca è stata l’ultima, ma Nina si è bruciata i ponti alle spalle nel 1974) e, dopo avere abbandonato gli Stati Uniti girovagando per mezzo mondo, è approdata in Francia dopo un anno di totale isolamento in Svizzera. Da qualche mese si esibisce, tutte le sere, in un jazz club del Quartiere Latino, Les Trois Maillets. E una piccola casa discografica francese, la Carrere, le offre di incidere un album, dandole carta bianca. Nina accetta e, con il piccolo gruppo che la accompagna (Sylvin Mac al basso e ai cori, Paco Sery alle percussioni, Sydney Thain alle congas, campanacci e woodblock), dà vita a uno dei lavori meno noti e più affascinanti della sua chilometrica discografia, senz’altro al più intimo e dolente, ma anche al più festoso e volitivo dopo una lunga stagione di smarrimento. Fodder On My Wings, un piccolo capolavoro.

Ora, quasi quarant’anni dopo, lo ripubblica un’etichetta di culto del jazz come la Verve e vale la pena di riascoltarlo. Lo apre un ritmatissimo e trascinante grido di battaglia: «Canto perché so che sono viva/ suono perché sento che sopravviverò» (I sing just to know that I’m alive). Chi è la Nina Simone che non vuole mollare? È un uccello con le ali imbrattate, quasi tarpate, dal letame. Con la polvere nel cervello. Che svolazza qui e là, incapace di posarsi perché la gente, dappertutto, è incapace di aiutarla. Così si confessa nella quietamente lancinante, quasi clavicembalistica, Fodder in her wings.

Chi canta così ne ha passate di tutti i colori. Nata Eunice Kathleen Waymon nel 1933, a Tryon, un paesino del North Carolina che ancora oggi supera a stento i mille abitanti, sesta di otto figli di una predicatrice battista e di un millemestieri di cattiva salute, ha visto la miseria nera degli anni della Depressione, è stata risparmiata dagli eccessi del razzismo (niente Ku Klux Klan, per intenderci) ma non dalla sua quotidianità piccina e ipocrita: stai al tuo posto, niente grilli per la testa, sgobba se vuoi avere il tuo piccolo posto al sole.

E la piccola Eunice sgobba: ha talento musicale, a tre quattro anni già rifà a memoria i canti religiosi sentiti in chiesa, a sei accompagna le funzioni, a dieci comincia a prendere lezioni da un’insegnante bianca che crede al suo talento, a dodici la piccola comunità si quota – e contribuiscono anche i benefattori bianchi – per farla studiare. La famiglia, il paese hanno deciso: sarà la prima concertista classica nera degli Stati Uniti. Per cinque anni studia senza tregua, suona anche dieci ore al giorno. Non ha amici fra i coetanei, l’unica compagnia sono quei tasti bianchi e neri. Nel 1950, vestita di mussola bianca, va per qualche mese ai corsi preparatori della Juillard di New York. In quei mesi abita ad Harlem che la intimorisce: gangster, strepito, violenza, donne e uomini sguaiati, lei cammina rasente i muri. La sua famiglia intanto si è trasferita a Philadephia, dove lei dovrebbe frequentare il Curtis Institute of Music: ma all’esame di ammissione la bocciano. Per razzismo, per levarle i grilli dalla testa.

Per lei è la prima di tante umiliazioni e la famiglia non fa niente per attenuarle il carico: non lo dicono, ma le fanno capire che se è stata esclusa è senz’altro colpa sua. Tenta di consolarla il padre, non l’anaffettiva e bigotta madre con cui non legherà mai. Nel corso degli anni, la famiglia disprezzerà la sua arte (“musica del diavolo”, e certo), non andrà al suo matrimonio né al concerto che la consacrerà alla Carnegie Hall, ma continuerà per tutta la vita a farsi mantenere da lei. Eunice romperà anche con il padre, dopo averlo sentito dire a uno dei fratelli: «Cosa credete, che a voi ci pensi lei? Se non ci fossi io…». E in Fodder on my wings fa un coming out tanto straziato quanto imbarazzante, prendendo una canzone di successo (Alone again di Gilbert O’Sullivan) e rivoltandola come un guanto.

Ricordo il pomeriggio
quando mia sorella è venuta in stanza
rifiutò di dirmi come stava mio padre
ma io sapevo che sarebbe morto presto.
Ed ero così contenta, ed era così triste,
di rendermi conto di dispezzare quell’uomo che un tempo chiamavo padre…
che moriva da solo, naturalmente…
E se riuscite a leggere fra le righe, mio Papà ed io eravamo appiccicati come mosche.
Lo amavo allora e l’ho amato sempre, e il mio cuore si è spezzato.
Lasciandomi a dubitare di Dio e della sua misericordia

e se davvero esiste perché mi ha abbandonato?
Quando lui se n’è andato ho bevuto e fumato tutto il giorno,

da sola. Ancora. Naturalmente.

Eunice che ha deluso i genitori e i paesani se ne va a lavorare. Assistente di un fotografo, accompagnatrice di una maestra di canto, finalmente pianista, intanto ha continuato a studiare per anni, ha continuato a prendere lezioni. Accade nel 1955 ad Atlantic City, dove è andata ad accompagnare un’amica che fa la escort e ha ottenuto un ingaggio come pianista in un night club scalcinato, a patto che canti. La sua storia comincia lì: una piccola leggenda locale (intanto ha cambiato nome: Nina come niña, bambina, e Simone come Simone Signoret che ha visto in Casco d’oro, perché i genitori non sappiano che vive nel peccato), una promettente cantante nei club di New York che attira il primo discografico rapace (l’etichetta è la Bethlehem che nel 1958 le fa incidere il primo album per tremila dollari tutto compreso: il 45 giri che ne ricavano, I loves you Porgy, è diciottesimo in classifica, anni dopo My baby just cares for me scelto per uno spot della Chanel sbancherà in mezza Europa, e chi le fa i conti scopre che ci ha rimesso almeno un milione di dollari, recuperati solo in minima parte) e il primo dei molti uomini sbagliati (Don Ross, uno scansafatiche e beone con pose beatnik che la deruba, durerà poco).

Intanto si è fatta strada, ha suonato alla Carnegie Hall e alla Town Hall, è un’attrazione del Village Gate al Greenwich Village (di tutti questi eventi restano altrettanti album live a dir poco strepitosi), e si è imposta con uno stile unico che fonde classica, jazz, r&b, folk, gospel e soul. Lei lo chiamerà “classical black music”. Intanto si è presa un secondo marito che le fa da manager, l’ex poliziotto Andrew Stroud che la picchia, la fa ammazzare di fatica in tournée massacranti e alla fine si dilegua con la cassa, lasciandola in un mare di debiti e in balia del fisco.

Ma in quegli anni Nina Simone ha letto, si è appassionata al movimento dei diritti civili, è diventata amica di James Baldwin, Amiri Baraka e Langston Hughes (del quale musicherà il Backlash blues), ha preso parte alla marcia di Selma. Più che il pacifismo di Martin Luther King, però, la attirano il radicalismo di Malcolm X e il nazionalismo nero di Stokely Carmichael che intanto ha sposato la sua amica Miriam Makeba. Nascono in quegli anni, fra il 1964 e il 1966, capolavori come la boicottatissima Mississippi goddam, che ricorda con toni veementi l’assassinio del dirigente dei diritti civili Medgar Evers e le quattro bambine fatte saltare in aria, a Birmingham, da una bomba in una chiesa battista. La Philips fa uscire un 45 giri, le radio del Sud rimanderanno indietro le copie promozionali spezzate in due. Di quel periodo è, soprattutto, la vibrante e maestosa Four women, forse la più bella delle sue canzoni, che al riscatto razziale unisce il riscatto di genere:

La mia pelle è nera
Le mie braccia sono lunghe
I miei capelli sono ricci
La mia schiena è forte
Abbastanza forte da sopportare il dolore
Mi è stato inflitto molte volte
Come mi chiamano?
Mi chiamano zia Sarah
La mia pelle è caffelatte
I miei capelli sono lunghi
Il mio posto è tra due mondi
Mio padre era ricco e bianco
Ha violentato mia madre una sera
Come mi chiamano?
Mi chiamo Safronia
La mia pelle è abbronzata
I miei capelli sono belli
I miei fianchi sono un invito
Le mie labbra sono dolci come il vino
Di chi sono la bambina?
Di chi ha i soldi per comprarmi
Come mi chiamano?
Mi chiamo Cosina Carina
La mia pelle è scura
Il mio atteggiamento è duro
Sono pronta a uccidere il primo stronzo che vedo
Perché la mia vita è stata difficile
Sono davvero amareggiata in questi giorni
Perché i miei genitori erano schiavi
Come mi chiamano?
Mi chiamo Peaches.

Con la fine degli anni ’60 sfuma il movimento, si sfascia il matrimonio, dureranno ancora pochi anni i contratti e i successi (To love somebody dai Bee Gees, che canterà anche in italiano, va ai primi posti in Inghilterra). Lei intanto se n’è andata a Barbados dove ha intrecciato l’ennesima relazione che non approda a nulla con il primo ministro dell’isola, Errol Barrow. Nel 1972 ha raggiunto la Liberia, convinta di trovare la madrepatria. Senza rendersi conto che l’élite nera corrotta del presidente Tolbert che la ospita, schiavi liberati nell’800 che si vestono come i piantatori sudisti di un secolo prima, tiene sotto il tallone la popolazione autoctona e si comporta come i vecchi schiavisti. Per un paio d’anni comunque Nina Simone è felice, e in Liberian calypso che aggiunge spezie al suo album francese racconta, per una volta allegra e sfrenata, di quando andava in discoteca e ballava nuda sui tavoli.

Dopo la Francia, dopo il 1982, le peregrinazioni riprenderanno. Qualche album che non fa più furore, una discreta attività concertistica ogni tanto funestata dalla sua leggendaria intrattabilità (Nina Simone ha una sindrome bipolare, i suoi fedelissimi la curano senza lasciar trapelare niente all’esterno, e ogni tanto esplode in scoppi di furore ingovernabili). Dopo la Francia l’Olanda, dopo l’Olanda l’Inghilterra, poi di nuovo la Francia. Negli ultimi anni Nina Simone è sempre più sola, sempre meno lucida: dice che non le hanno fatto sposare un giovane amante tunisino, si rintana nel Sud della Francia, in paesini sperduti dove non vede più nessuno e dove qualche volta spara ai vicini, lo condannano anche a otto mesi di carcere che non sconterà grazie a una perizia psichiatrica. È finita intanto in mano a un infermiere nero, l’ultimo dei profittatori, che la segrega e impedisce agli amici di un tempo di farle visita. Si spegne nel sonno nell’aprile 2003: ha settant’anni, da tempo combatte con il tumore al seno. Due giorni prima che morisse, il Curtis Institute di Philadelphia, il conservatorio che cinquantatré anni prima l’aveva respinta, le fa recapitare un diploma ad honorem.

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