Soggetto la Filarmonica della Scala, oggetto i direttori ospiti: Daniele Gatti, Valerij Gergiev, Daniel Harding, Christian Thielemann. Che percezione hanno i musicisti dell’orchestra milanese dei maestri della bacchetta con cui hanno “incrociato” i loro strumenti? E con chi vorrebbero misurarsi in futuro? L’opinione di quattro prime parti che ne hanno visti tanti
Proviamo a cambiare senso di marcia allo sguardo. Invece che dal podio all’orchestra, dall’orchestra al podio. Chi e che cosa vedono i musicisti dai leggii? Chi e che cosa vorrebbero vedere? Insomma che cosa li accende, li appassiona, li lascia freddi o perplessi? E chi vorrebbero vedere, bacchetta in mano, con cui non abbiano già lavorato o abbiano lavorato poco.
Il soggetto è la Filarmonica della Scala, interrogata attraverso quattro prime parti che ne hanno visti tanti: Luisa Prandina, arpa; Renato Filisetti, trombone; Gianluca Scandola, violino primo; Marcello Sirotti, violoncello. Nulla di definitivo, ci mancherebbe, solo la curiosità di avere qualche flash nato dall’esperienza – per tutti e quattro ormai lunga quasi quanto la storia della Filarmonica, fondata da Claudio Abbado nel 1982 –, e desideri, auspici di nuove esperienze.
Esclusi naturalmente i direttori musicali, ho suggerito tre nomi che i risultati degli ultimi tempi dicono toccati da un particolare stato di grazia nei rapporti con l’orchestra. Su quelli si sono convogliati consensi e aggiunte. Ne è risultato un quartetto: Valerij Gergiev, Myung-Whun Chung, Daniel Harding, Daniele Gatti.
I desideri per il futuro hanno segnalato altri sei nomi: Esa-Pekka Salonen (che con la Filarmonica ha lavorato poco e che avrebbe dovuto dirigere il prossimo appuntamento sinfonico del 25, 26 e 27 novembre, sostituito fortunatamente da un altro “desiderio”: Christian Thielemann), Simon Rattle, Kirill Petrenko, Andris Nelsons, Yannick Nézet-Séguin.
Vediamo più da vicino.
LUISA PRANDINA
Per Chung i miei ricordi affondano indietro nel tempo. Concerti indimenticabili, una Sinfonia fantastica nell’88, una Lady Macbeth in teatro… Chung mi ricorda Giulini, musicista puro, intriso di spiritualità. Un gesto molto di braccia, di spalle, che crea un suono inconfondibile. Un gesto quasi in contrasto con la sua spiritualità, molto fisico, pastoso.
Gergiev, è un demonio, in senso buono. Le esperienze più forti credo di averle vissute con lui, nella musica russa soprattutto: i cori di Čovančina… Spirituale anche lui, ma in una dimensione diversa da Chung. Una forza interiore che viene dall’anima russa. E, se posso dire, mi piace anche la sua tristezza, la sua malinconia, perché la musica è fatta anche di questo.
Harding l’ho sempre amato fin da quand’era giovanissimo. Ho suonato nella Chamber Orchestra of Europe, vengo dalle esperienze di Abbado, ed era la promessa più luminosa. Oggi è una promessa mantenuta, ma secondo me resta un direttore un po’ sottovalutato. Non ha avuto la carriera che poteva avere, forse per la sua disposizione di carattere, che comunque a me piace, perché è uno spirito libero. L’idea che abbia lasciato per qualche tempo la direzione d’orchestra per fare il pilota d’aereo, beh lo dice lontano dagli stereotipi. Mi piace il suo carattere anche se non è un bel carattere. Talento musicale grande, con un gesto molto preso da Abbado, che mi rimane nel cuore.
Daniele Gatti. Non più giovane, ma enorme talento, anche per la memoria, come Abbado. Due Daniele accomunati dal gesto. Sia lui che Harding hanno cominciato con questa devozione, ma hanno trovato un loro modo di dirigere, completamente diverso: Harding più cerebrale, più essenziale. Gatti capace di slanci bellissimi. Penso a cose memorabili come I maestri cantori, e prima Wozzeck e ancora prima Lohengrin. Con Gatti ho iniziato nei Pomeriggi Musicali; è bello aver avuto la possibilità di vedere tutte queste evoluzioni in corso.
Salonen? L’amo tantissimo. Ha diretto purtroppo troppo poco. Con lui l’esperienza è più legata al teatro. Ma per quanto mi riguarda, ha lasciato un segno profondo il programma in cui ha diretto anche il suo Concerto per violino, perché di Salonen mi piace anche quello che compone. Vorrei che venisse a dirigere di più anche alla Scala. Peccato per questo forfeit. Ma nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di avere Christian Thielemann, la cui ultima volta risale a circa trent’anni fa, mi sembra. Una presenza che finisce per essere una novità assoluta, di quelle che ci auguriamo per il futuro.
Con chi altri mi piacerebbe lavorare? Con Simon Rattle, nuovo direttore a Monaco. Ora che si è avvicinato, spero che possa venire a Milano. E Kirill Petrenko. Da donna, vedo con piacere l’arrivo di donne sul podio, come Speranza Scappucci. Così com’è stata bella l’esperienza con Susanna Mälkki, che in Quartett di Francesconi ha lavorato benissimo.
Curioso: amici della Bayerischer Rundfunk mi hanno rivelato che durante la pandemia hanno avuto quasi solo donne sul podio, magari non tutte… Ma insomma, nei primi anni preparare un programma con quattro prove era difficile. Siamo cresciuti, con i giovani entrati in organico il livello è salito. Il nostro compito è questo: tenerci stretti alla nostra tradizione e aprirci alle nuove realtà.
RENATO FILISETTI
Premessa generale. Siamo persone che si accendono quando arriva un direttore con cui si è stabilito un rapporto di empatia. Gergiev e Chung sono di questa natura. Personalmente sento Gergiev un po’ erede di Carlos Kleiber. Uno di quei musicisti che sviluppano un’energia irresistibile. Magari in sede di concertazione non sono così puntuali come Abbado o Muti, ma la sera del concerto sono i “piloti” capaci di portare la macchina dove nessun altro saprebbe. L’empatia nasce dalla sua personalità, dal modo di porsi, dal genio; per questo lo sento sulla scia di Kleiber. Gergiev è un po’ un nostro motivo di orgoglio: come Filarmonica l’abbiamo portato per primi in Italia, quando era un giovane quasi sconosciuto. È nato subito un rapporto fraterno che si è esteso a tutta l’orchestra. Lo stesso è avvenuto con Chung, che è stato assistente di Giulini. Si sa, Abbado se n’è andato presto, e a portare in giro l’orchestra è stato Giulini, con il suo Schubert, il suo Brahms. Ci lega un senso di appartenenza: siamo stati figliocci di Giulini e Chung ne ha raccolto l’eredità.
La stessa cosa vale un po’ per Harding rispetto a Claudio. Il carattere, il talento, la testa, la bacchetta, la musicalità, le idee. Il carattere lo imbriglia un po’. Non è facile: durante le prove vuole fare il simpatico e non sempre gli riesce. E qualche scatto non giova. Ma quando finisco un concerto con lui, in genere mi dico, che bello, abbiamo suonato bene. Così come ti rimangono impressi risultati speciali con direttori speciali come Barenboim, mi riferisco soprattutto a Wagner e Beethoven. O come Maazel. Ricordo una sua memorabile Quarta di Schumann. La prima parte era andata come al solito, ma nella seconda parte è successo qualcosa: è entrato deciso, si è appoggiato sulle gambe e, a memoria, ha diretto uno Schumann incredibile. Fu l’ultima volta con lui e me la ricorderò per sempre.
Salonen ha diretto poche volte. Peccato, sarebbe stato molto interessante lavorare con lui la prossima settimana. Ma torna Thielemann, che era stato qui trent’anni fa quando era sconosciuto. Una fortuna. Con chi altro mi piacerebbe lavorare? Direi Kirill Petrenko.
MARCELLO SIROTTI
Per me i direttori si dividono in due categorie: quelli con cui si ci sente sicurissimi sul testo, sempre appoggiati, su una piattaforma stabile, e quelli con cui si è intenzionalmente in mezzo a qualche cosa. Gergiev e Chung rientrano in questa seconda categoria. Non amo i direttori squadrati, preferisco avere margini fra il gesto e il risultato in cui infine mi ritrovo.
Gergiev è carisma allo stato puro. Un gesto, un’occhiata bastano a mettere insieme tutti, a dare senso alle cose. Fascino alle stelle, tecnica direttoriale talmente essenziale che va direttamente al punto. L’ho visto capace di scatti straordinari. Certo, a volte arriva alle prove e non ha la partitura, sembra assente. Un personaggio di Dostoevskij, capace di sorprese ed esiti straordinari. L’anima russa che permea tutto.
Chung. Anche con lui c’è sempre margine di personalizzazione nei risultati. Cultura occidentale, per studi, preparazione, repertorio, e una gestualità molto orientale, molto circolare, che mi ricorda Ozawa. Amatissimo, anche lui ama la nostra orchestra. Un rapporto affettuoso consolidato negli anni. Come Gergiev è capace di risultati straordinari, e anche con lui non ricordo di aver mai sentito qualcosa che non mi sia piaciuto, sia nel repertorio operistico sia in quello sinfonico. Si riallaccia a Prêtre e viene da Giulini, del quale è stato assistente. Non parliamo di cloni, ma di eredi di un patrimonio. Negli anni riconosco matrici antiche in nuovi direttori.
Harding è uno dei migliori direttori sulla scena internazionale. Carattere vispo, peperino, intelligentissimo, brillantissimo, di musicalità straordinaria. L’ho visto maturare nel tempo, se vale il mio giudizio dal leggio, come personalità, come istinto. Per me, Marcello Sirotti, è sempre un piacere suonare con lui. Anche quando s’impenna per qualcosa, pazienza, ci faccio la tara. Sicurezza di gesto e di intenzioni, sa cosa vuole e sa come ottenerlo; giusta ricetta per avere una cosa fatta bene. Sul podio è molto sicuro, ma nella vita ha risvolti umani che non diresti, a volte esitante, incerto, come quando deve esprimersi in italiano. Un uomo ancora giovane, un enfant prodige con corazze difensive. Ma una persona normale, non solo una macchina da podio.
Di Salonen ho un’esperienza lontana, di quando sembrava che i direttori arrivassero solo dalla Finlandia. Ti aspetti un carattere freddo, rigido. Poi scopri una classe, una musicalità… Un ricordo lontano ma notevole.
Con chi mi piacerebbe lavorare? Con Kirill Petrenko, che non ho mai visto dal vivo, e, personalmente, con Yannick Nézet-Séguin, che mi era molto piaciuto.
GIANLUCA SCANDOLA
Insieme ai colleghi intervistati rappresentiamo una generazione. Ce n’è un’altra in orchestra che può avere un punto di vista diverso, con differenti prospettive interessanti da indagare.
Ho visto nascere la Filarmonica con Abbado. Che aveva ben fondati motivi per voler creare un’orchestra sinfonica autonoma con gli stessi musicisti che suonavano in buca: abbiamo qui grandi direttori che fanno l’opera, diceva, è assurdo non fermarli anche per il repertorio sinfonico solo perché la stagione dedicata è in un altro periodo dell’anno. Così è maturato il successo degli anni Ottanta, con Giulini, Sawallisch, Maazel. Quasi tutti i più grandi sono stati nostri ospiti, inevitabile che ne manchino diversi, da Kirill Petrenko a Simon Rattle a Christian Thielemann, che sostituisce Salonen nel prossimo concerto sinfonico e la cui unica presenza risale a circa trent’anni fa. Altri più giovani stanno per arrivare, come Andris Nelsons, musicista di grandissima qualità.
Gergiev e Chung sono entrati nella rosa dei direttori “di famiglia” quasi insieme e prima come ospiti della Filarmonica che del teatro. Erano quasi sconosciuti, soprattutto Chung. Si è subito instaurato un rapporto interessante. Fin dall’inizio hanno mostrato i caratteri che hanno sempre mantenuto nel loro percorso scaligero. Di Gergiev ricordo la prima prova della Patetica. Eravamo tutti lì all’Abanella ma non potevamo cominciare: mancava la partitura. Ho preso la bicicletta, sono andato a casa e sono tornato con la musica. Gergiev è così. Un tale carisma, una tale bravura tecnica e intelligenza musicale. Affascina con una sorta di ipnotismo: una matitina come bacchetta, a volte uno stuzzicadenti… Quando viene Gergiev l’orchestra è sempre contenta. Ma posso dire che i giovani non hanno lo stesso atteggiamento. Gergiev è uno dei direttori che fa meno prove. Con la sua bravura riesce ad aggiustare qualunque situazione: una volta c’era questa visione fantastica. Ma i giovani dicono: beh una prova in più, una parola in più. Sono molto preparati e si aspettano dal direttore un lavoro intenso. Non si può dar loro torto.
Comunque per Gergiev ammirazione sconfinata. Questo sguardo impressionante: un mago, soprattutto nella musica russa. Gergiev può dirigere qualsiasi cosa, ma lì dimostra la sua anima. Io sono di quelli che pensa che ogni direttore abbia un suo repertorio. Chung ha un suo repertorio, e grande sensibilità, tecnica, talento. Chi, ad esempio, lavorava bene con Muti, sentiva con Chung l’alternativa di un alto valore emozionale. A volte si lascia sopraffare da certe situazioni. Ma i musicisti hanno imparato a conoscerlo e il rapporto è continuato per anni, salvo qualche momento di allontanamento. Con lui l’orchestra ha un dialogo costante e sempre l’avrà. Insieme abbiamo fatto tournée molto belle. In Corea ha invitato tutta l’orchestra a casa sua. Anche lui ha investito molto nell’orchestra, e viene sempre volentieri. Il sinfonico è la sua dimensione. Nel repertorio fine Ottocento primo Novecento è un numero uno.
Harding. Molto diverso il rapporto con lui, più recente. Non lo conosco molto, non ho lavorato tantissimo con lui. Ma ricordo un concerto bellissimo: una Quinta di Mendelssohn. Harding secondo me è un direttore in evoluzione. Era in un modo, si è trasformato in un altro e un altro ancora. Così talentuoso e intelligente, ha un carattere che non lo favorisce con le orchestre, non solo con quella della Scala. Ma è sempre in evoluzione e sarà uno dei più importanti anche in futuro.
Fra gli italiani, Daniele Gatti è in forma strepitosa. Purtroppo viene poco, ma quel che ha fatto qui nell’opera, negli ultimi cinque o sei anni, è di un livello straordinario. Parlo della capacità di tenere insieme tutto, di avere una visione lunga, di tendere l’arco dall’inizio alla fine, che è la cosa più difficile. Anche nei concerti sinfonici… una Seconda e una Nona di Mahler, Verklärte Nacht di Schoenberg… Repertorio simile a quello di Sinopoli. Ma anche Brahms. La scuola italiana c’è ed è di valore. Lo vediamo anche in questi giorni.
Altri direttori “da avere”? Salonen, straordinario. Peccato che abbia rinunciato a questo concerto prossimo. L’ho conosciuto molto giovane, qui a Milano: era allievo di Donatoni e imparava l’italiano studiando in Conservatorio. Mi aveva colpito questo ragazzo, che anche come compositore scrive cose molto interessanti. E Kirill Petrenko, direttore dei Berliner Philharmoniker. Come la Filarmonica, anche i Berliner hanno avuto una storia d’amore con Gustavo Dudamel, che alla prova dell’opera ha rivelato qualche problema. Hanno pensato molto a Dudamel, poi con Petrenko hanno fatto una scelta di solidità. Giusta.
In copertina: Kirill Petrenko (foto ©Wilfried-Hösl)