Il romanzo hard-boiled di Horace McCoy e il celebre film diretto da Sidney Pollack, con Jane Fonda sontuosa protagonista, sono al centro di un incontro condotto da Violetta Bellocchio domenica 17 alla Fabbrica del Vapore. L’America degli anni Trenta e Hollywood come fabbrica di spostati e perdenti sono i temi di un racconto che gira intorno a una spietata maratona di danza, in California, durante la Grande Depressione. Un luogo reale e metaforico in cui si dispiega la disperazione umana
Ho visto per la prima volta Non si uccidono così anche i cavalli? di Sidney Pollack subito, quando uscì in Italia nel 1970, insieme a Easy Rider, e come tutti gli adolescenti comme il faut, 68ini e cinefili, ero innamorato di Jane Fonda. E da qualche anno: dai tempi del bizzarro Cat Ballou e soprattutto di La caccia, uno dei tanti capolavori di quel mai abbastanza apprezzato autore che era Arthur Penn, un film manifesto dell’America leftist anni ’60, con un altro giovane che poi avrebbe fatto un po’ di strada, Robert Redford, e un Marlon Brando quasi pronto per Il padrino. Le avevo perdonato la caduta trash di Barbarella (senza andare a vederlo, of course, prodotto commerciale!) e il mio sentimento verso la figlia del grande “Hank” non poté che arricchirsi, di lì a pochi anni, grazie a Klute e a tante altre sontuose prove.
Ma la sua straordinaria interpretazione di Gloria fu davvero da shock: un’eroina bella e rocciosa, già sconfitta e malinconica, nichilista eppure vitale nell’inseguire un piccolo sogno da (in fondo) pochi dollari, che si unisce negli anni della Grande Depressione a un altro ragazzo disperato, Robert, come lei già un rifiuto di Hollywood senza quasi esserci nemmeno entrato. Insieme partecipano a una spaventosa maratona di ballo, come ce n’erano molte a quei tempi, che più che premiare i migliori danzatori offrivano a un pubblico spietato il brivido di veder crollare in pista ogni giorno uomini e donne, per settimane e mesi costretti a trascinarsi in movimenti sempre meno coreografici e più vicini a uno sfinimento mortale, fisico e metaforico. Nella certezza di veder sfumare ogni loro speranza o illusione.
“Book Pride” (per avere un’idea generale della rassegna, in cartellone dal 15 al 17 marzo, potete leggere qui) ne propone una rilettura in occasione della pubblicazione per Sur del romanzo di Horace McCoy da cui il film è tratto, che è del 1935, quasi coevo dei fatti, a cura di Violetta Bellocchio, che del libro ha curato un’interessante prefazione. Insieme a lei parteciperanno all’incontro i ballerini dell’associazione Tangomorphosi, domenica 17 alle 17 alla Fabbrica del Vapore, Sala Samuel Beckett. E a giudicare dallo scritto di Bellocchio, un punto forte della discussione sarà proprio la rivisitazione filmica del personaggio di Gloria, in quanto spia della trasformazione del romanzo con venature hard-boiled di McCoy (che fu anche sceneggiatore a Hollywood, ed ebbe in quel filone notevole successo anche con altri titoli, da Un sudario non ha tasche a Un bacio e addio, da Le stelle negli occhi al postumo Questa è dinamite), nato su uno sfondo sociale abbastanza collettivo, nel film di Pollack, comunque supportato da analoghe intenzioni di denuncia sociale (meno autobiografiche, ovviamente, ci sono di mezzo 35 anni) ma fortemente concentrato sui due caratteri principali.
Se con loro dialogano con forza attori del calibro di Gig Young (il presentatore Rocky, cinico ma con qualche vena umana) e Susannah York (un’altra concorrente, dagli eccessi teatrali e allucinatori), o il giovane e grintoso Bruce Dern, molti personaggi e temi, di rilievo nel romanzo, sembrano scolorire, e alcuni spariscono del tutto come l’italiano Mario (assassino in fuga sotto falso nome) e la Lega delle Madri Virtuose, che nel racconto di McCoy riescono a far interrompere la maratona, mentre nelle immagini conclusive del film si vedono le ultime coppie ancora in pista a disputarsi il premio. E, tra i due, l’abbastanza anonimo Michael Sarrazin, meteora cinematografica senza un grande futuro, qui alla sua grande occasione sostanzialmente mancata, fa un Robert forse azzeccato nel suo pigro disincanto, da filosofo mite di un tempo senza eroi, ma non regge sicuramente il duetto con Jane/Gloria.
Lo stesso tema del delitto finale, che nel romanzo è al centro del plot, di cui un Robert arreso e disponibile si rende responsabile su richiesta dell’esausta Gloria, nel film non è così in primo piano; e di ciò che accade dopo, di cui sulla pagina scritta c’è più di una traccia in una sorta di montaggio parallelo, quello sì molto cinematografico, non restano che un paio di sequenze in cui lui rende la sua confessione a un giudice invisibile. In una stanza dalle forme e dai colori asettici, onirici, adatti più a un processo kafkiano, quasi immaginato, che alla concreta testimonianza di un assassino che dichiara la sua colpa dovuta a un atto d’amore, a almeno di affettuosa solidarietà.
Intendiamoci, Pollack, qui al suo primo film di alto livello e che di lì a pochissimi anni avrebbe girato Corvo rosso non avrai il mio scalpo, Comer eravamo e I tre giorni del condor, gira alla grande, dalla carrellata iniziale sui concorrenti al tavolo di chi dovrà “assumerli” al tip tap del marinaio Red Buttons, dalle riprese mobili della sala silenziosa che ascolta un lento eseguito al piano alla ripetute scene dal montaggio furioso, ansiogeno dei derby, veloci “gare nella gara” che mettono ancor più a dura prova le energia rimaste ai concorrenti. Ma certamente nel modellare Gloria – che nel libro non ha un attimo di vera speranza – sulla tristezza non ancora del tutto indurita di Jane Fonda, il film sembra mitigare anche l’impatto dell’energia originaria della protagonista, radicale, assoluta nel suo disprezzo di sé (disposta perfino a un momento di sesso con Rocky, in cui peraltro non perde comunque mai il controllo della situazione) e del mondo in cui vive. Tra un finto matrimonio in gara per la commozione del pubblico al vero infarto del nuovo partner di lei, che fino all’ultimo cerca di convincere a non mollare (“sono stufa di perdere, resisti, attaccati a me”), fino all’ironica battuta “Non perderti il finale”, che accompagna la consegna della pistola a Robert, l’arma che la ucciderà, Pollack si affida a Gloria/Jane per tutte le scene clou del racconto.
Affidando il controcanto “del potere” all’implacabile Rocky, che grida “questi meravigliosi ragazzi si battono fino alla fine per vincere, e tutto questo non è da veri americani?”, e, pur mostrando pietà per i suoi concorrenti non elude la sinistra attrazione che lo show esercita su di lui e sugli spettatori paganti. Molti dei quali sono divi di Hollywood, o piccoli sponsor disposti a finanziare le coppie che più apprezzano. Perché, dice ancora Rocky, “vogliono vedere la gente soffrire”, ma anche sognare. E “se smettono di credere a quello che vedono, smettono di venire”. Un’ideologia da “the show must go on”, che nessuno tra i concorrenti mette in discussione, in quella sala da ballo californiana anni Trenta come in tante analoghe, in altri luoghi e altre epoche.
Bellocchio inquadra il libro, opera di uno scrittore che prima aveva tentato di fare l’attore e racconta due perdenti che avevano cercato di entrare nel mondo del cinema, sottolineando che Hollywood per McCoy è più una fabbrica di illusioni impossibili che di sogni di chi ci vuol entrare, in gran parte dei casi un candidato/a già perdente, che non ce l’ha fatta ancor prima di cominciare. Una macchina per la creazione di spostati, un mito infranto già negli anni Trenta. Molti scrittori confermerebbero, da John Fante a Dashiell Hammett, allo stesso Francis Scott Fitzgerald, che dal cinema fu tutt’altro che gratificato, e vanno annoverati tra le “vittime di Hollywood”. Un luogo e un mondo in cui, tranne per pochi, è quasi impossibile vincere e spesso anche vivere, e dove convivono il mito del sogno (per gli aspiranti attori, per il pubblico) e una realtà da incubo, fatta di violenza sessuale e sottomissione femminile, evidenti in Non si uccidono così anche i cavalli?
In questo contesto è interessante anche il tema della depressione come fattore contagioso, tra i concorrenti della maratona di ballo e in metafora tra tutti gli abitanti del pianeta. Gloria, già scarto senza speranza di riscatto a Hollywood, rotola verso la sua pulsione di morte, di cui in qualche modo sono tutti partecipi, nel film: ma è comunque lei che muove tutto e non smette di farlo. Una comparsa, come altre, che non arrivano neanche a superare la selezione per diventare comparse. Perché quando si arriva a Hollywood si è già dei perdenti, vittime dal desiderio di essere scelti e insieme della paura di essere giudicati.
Book Pride 2019: ogni desiderio