Al Festival svizzero Edward Norton e Andy Garcia raccontano le loro esperienze sulla scena e sul set e riscoprono la tecnica dell’improvvisazione
Tutti lo sappiamo, ma non sempre ce lo ricordiamo. Da quel 28 dicembre 1895, epoca in cui venne proiettato per la prima volta a Parigi L’arrivo di un treno alla stazione dei fratelli Lumière, il cinema, da arte popolare fatta di vedute, squarci documentari, situazioni buffe e particolari sperimentali (si pensi alla lente di ingrandimento di Smith), lascia sempre più spazio al dramma borghese, agli elementi di narrazione e di finzione, ad un realismo incarnato dalla penna di scrittori e drammaturghi che trasforma le immagini in movimento in vere e proprie immagini drammatiche.
Il cinema si fa punto di giuntura tra un’arte visivo-pittorica e una mimico-verbale-musicale, che trae le sue profonde radici espressive da quel gioco tragico e dionisiaco tipicamente greco soprattutto per noi occidentali che abbiamo trasmesso nei modi e nelle forme del teatro. Anche tra i grandi attori hollywoodiani c’è chi riconosce e paga volentieri il debito a questa pratica tanto antica quanto estremamente contingente, che di volta in volta fa spingere l’uomo oltre i propri limiti, regalandogli nuove concezioni della realtà, mettendo alla prova le sue convinzioni e soprattutto accorgendosi di quanto un corpo, i suoi movimenti, i suoi gesti, possano davvero farsi specchio del nostro vivere.
E ben chiaro agli ospiti d’Oltreoceano del Festival di Locarno, come Edward Norton, che l’atto di nascita della sua passione per la recitazione cresce di pari passo tra cinema e teatro. Dopo aver frequentato la Yale University, fin da giovane si applica come attore teatrale, scrittore di fiction tv e drammi, esplorando ampiamente quel linguaggio scenico fatto di gesti, parole, relazioni e tensioni da palcoscenico che non a caso in Birdman di Inarritu è stato capace di restituirci con grande puntualità. Solo in un secondo momento si concede allo sguardo della macchina da presa e quando esordisce con il suo primo film sa bene cosa significhi mettersi nei panni di un personaggio, scontrarsi coi limiti della propria mente e con le insicurezze che sorgono da sentirsi o meno all’altezza del personaggio, dai dubbi che nascono prima durante e dopo il lavoro dell’attore e che forse gli forniscono quella linfa primaria che vivifica il suo impegno. Per lui cinema e il teatro sono due grandi giochi, in cui si sa dove si inizia ma non si sa mai cosa ci si può attendere, pur calcolando tutte le variabili del caso: come in F1, si può analizzare attentamente ogni singolo angolo del tracciato ma la gara si fa in pista, rischiando il tutto per tutto e magari raggiungendo risultati incredibili e inattesi. Recitare è ingaggiare una sfida a cui non c’è una vera e propria soluzione interpretativa ma è tutto un grande divenire.
Anche dietro e davanti alla macchina da presa c’è spazio per l’improvvisazione, ad una creazione che si fa di volta in volta, alla libertà di un approccio da “commedia dell’arte”, come racconta Andy Garcia dai suoi ricordi delle giornate di lavorazione con Francis Ford Coppola. Fu così infatti, grazie ad una scelta di interpretazione libera e non “ingabbiata” che venne girato il padrino Parte III: si partiva da una struttura di base e poi si improvvisava: le scene venivano scritte e riscritte, procedendo in modo molto autonomo seppure poggiando su un soggetto di base in modo molto diverso da quel che l’attore racconta riguardo al set degli Intoccabili di Brian de Palma, molto più attento a rispetto delle battute in sceneggiatura. Un aneddoto interessante riguarda gli esordi da attore di Andy Garcia, interessato prevalentemente allo sport al College e giunto definitivamente alle luci della ribalta dopo un infortunio che lo fece rimanere fermo per qualche tempo e lo avvicinò al compagno di squadra più grande Mickey Rourke non solo sul campo da basket ma anche, senza aspettarselo, nel campo della recitazione. Se il processo dell’improvvisazione è così familiare a Goldoni e al teatro veneziano, si spalancano gli occhi di fronte al cinema hollywoodiano, che rivela dietro quel rigore americano così industriale e strutturato, un estro creativo plastico, in cui i monologhi classici e contemporanei del teatro inglese, francese, spagnolo ed americano non sono un antico ed obsoleto modo di approcciarsi alla materia, ma una sorgente sempre viva e mutevole di ispirazione, permeata da intuizioni di volta in volta originali e inimmaginabili.
Da Euripide a Stanislavskij, da Shakespeare a Lee Strasberg, da Ferruccio Andreini a Charlie Kaufman, Francis Ford Coppola, Pasolini, Peter Brook, Bob Wilson, Truffaut, Visconti e Rossellini non si è mai smesso di omaggiare indirettamente il teatro, non appena c’è un attore che recitando ci racconta con il suo corpo una storia, e di pagare il debito a quell’arte che oltre ad insegnare come si sta sul palco, non smette di disegnare un ritratto variegato, ironico e mutevole della nostra vita.
Immagine di copertina di Lloyd Dirks