“Anatomia di una caduta” della regista normanna Justine Triet ha vinto l’ultimo Festival di Cannes grazie alla grande capacità della regista di tenere stretto il mistero su una morte oscura, un (forse) delitto senza prove. Quello di una scrittrice il cui marito (e collega) viene trovato senza vita su una candida distesa di neve delle alpi svizzere. Nessun vicino o altro sospettabile, nessuna certezza, due avvocati bravissimi che si danno battaglia in tribunale, una straordinaria protagonista, Sandra Huller
La prima regista normanna a vincere la Palma d’oro di Cannes è la 45enne Justine Triet che nel ’23 ha battuto tutti con Anatomia di una caduta, un giallo classico, ma anche atipico, di 150 minuti, categoria inferno coniugale. Non spoilero nulla, inizia subito col protagonista, scrittore in crisi, trovato esanime al suolo, caduto dal secondo piano dello chalet sulle Alpi svizzere, dove abita con la compagna e figlio ipovedente. Non c’è ragione apparente, solo un rigagnolo rosso di sangue dalla testa sul candore della neve, ma poiché non c’è gente di passaggio in zona, dove la coppia si era trasferita da Londra per ritrovare tranquillità, ci sono solo due ipotesi: l’uomo era disperato e voleva suicidarsi, come sostiene la difesa della compagna che è subito la maggior imputata, oppure è la crudeltà della donna che l’ha spinto alla morte.
Siamo tutti ipovedenti come il figlio, il film si svolge quasi tutto in tribunale ed è appassionante, non si smette di cambiare idea neanche un attimo anche per la bravura dialettica dei due avvocati. Non essendoci prove schiaccianti della spinta dal balcone, si indaga sui rapporti in famiglia, e anche sulla rivalità professionale, giacchè entrambi sono scrittori, lei in ascesa, lui in discesa. Viene rovistato ogni angolo della casa, non solo, si ritrovano come prove cassette audio di litigi ma, senza il video, è difficile interpretarle.
Le responsabilità si rimpallano a ping pong e la regista, più abituata al brillante (Sibyl-Labirinto di donna Tutti gli uomini di Victoria, passati entrambi da Cannes) , se la cava benissimo nel gioco dei sospetti e anche nella difesa dell’ambiguità che regna sulla storia: ha dichiarato che le piaceva il sospetto di una donna mostro, dopo tanti uomini mostro, e che l’ha ispirata Fleischer col capolavoro Lo strangolatore di Boston. E’ anomalo il set innevato, la solitudine dell’alta montagna, ma l’anatomia di questa caduta diventa presto sociale e morale: si indaga sui rapporti psicologici dei due, sullo stile di vita e di scrittura, certo sul sesso, e il figlio non sarà certo estraneo al racconto in cui la madre è la maggior sospettata.
Film da tribunale in tutto e per tutto (viene in mente un altro capolavoro, Testimone d’accusa di Billy Wilder, da Agatha Christie) col piacere delle arringhe e dei volti dei giurati, ma tutto si stempera nel dono che l’autrice fa alla platea: non si sa nulla, tutto si immagina, come diceva Fellini. Spina dorsale della riuscita è una grande attrice tedesca, Sandra Huller (già in Sibyl), in un cast perfetto, ma la bravura della regista tiene e allarga i tempi anche senza violenza o colpi di scena; è il piacere di avvicinarci un poco alla volta a questa storia, in cui la relazione tra vittima e colpevole è molto difficile da delineare. Ci si muove a tentoni, chissà, ci illudiamo di avere in mano una soluzione, la prova. Si accettano scommesse, ma di certo il film fila via come un treno nella notte (copyright Truffaut).
Anatomia di una caduta, di Justine Triet, con Sandra Huller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner, Antoine Reinartz, Samuel Theis, Jehnny Beth, Saadia Bentaieb