Eco torna agli anni di Tangentopoli e alle teorie del complotto con un quotidiano dove si sa «che per controbattere un’accusa, basta delegittimare l’accusatore»
Gli elementi, quelli che lo hanno ossessionato negli ultimi anni, ci sono tutti: le manie complottistiche, il cambio di identità, l’informazione, la “costruzione del nemico”, il populismo, la grettezza delle masse, l’ingarbugliata e romanzesca storia d’Italia.
Elementi presenti non solo nella letteratura – si pensi allo sfortunato Cimitero di Praga – ma, soprattutto, nelle bustine di Minerva e nei saggi (Costruire il nemico). Umberto Eco, come sempre, distingue i piani di lettura ed erige una trama avvincente e modulata sulla sorpresa e sull’arcano. Tuttavia, Numero zero riprende anche uno dei temi più cari al semiologo e medievista – quello della menzogna e dell’inganno – e ne fa una sorta di manifesto contro uno degli atteggiamenti più caratteristici della società occidentale odierna: l’ossessione del complotto, quella che non distingue tra abduzione (l’ipotesi fondata ma falsificabile) e il racconto ideologico che fa derivare una spiegazione completa da una sola premessa certa.
Ambientato nella redazione di un giornale che non verrà mai distribuito, l’intreccio è il racconto in prima persona del suo caporedattore, Colonna, il quale, in una sorta di diario, cerca di ricostruire gli eventi che lo hanno portato a sentirsi perseguitato da una sinistra minaccia. La vicenda è assemblata in maniera piuttosto curiosa; e curiosi sono anche gli elementi paratestuali messi in moto: cambi di carattere e di criteri per la titolazione dei capitoli. Un sistema narrativo circolare che comincia dalla fine per raccontare ciò che avviene prima e poi concludere il discorso svelando il mistero. L’uso di un font diverso distingue i capitoli “ricostruttivi” da quelli che raccontano la vita di redazione. Ma non approfondiamo oltre questi aspetti per non svelare altro della trama.
Si aggiunga solo che l’intera vicenda è cadenzata dalle manie complottistiche di uno dei redattori, Braggadocio, le cui ipotesi e ricostruzioni vanno a sovvertire l’intera storia dell’Italia repubblicana fino al 1992, anno in cui è ambientato il romanzo e in cui – sta per partire Tangentopoli – questa storia “conclude il suo cerchio” per svelare se stessa e palesarsi. I sistemi narrativi di Braggadocio finiranno presto per impadronirsi dell’intreccio e diventare il romanzo stesso.
La gabbia narrativa, insomma, è perfetta. Eco, come sempre, si rivela un grande “ingegnere” della letteratura capace non soltanto di “passeggiare” con sicurezza attraverso “i boschi narrativi”, ma anche di costruire impalcature romanzesche formidabili sulle quali edificare apparati letterari che altro non fanno che riciclare materiale dalla storia, dalla cronaca, dalla letteratura. Se il più noto accademico italiano, probabilmente, è capace di mettere in moto marchingegni narrativi impeccabili, forse non è altrettanto dotato di fantasia. E anche la combinazione degli elementi ricorre spesso al materiale narrativo più tradizionale: all’interno della redazione nascerà una romantica storia d’amore che si rivelerà l’unico approdo di autenticità in grado di liberare il protagonista dalla menzogna di cui ormai ha non soltanto fatto una professione ma dalla quale si sente interamente circondato.
Gli uomini, d’altronde, sono naturalmente inclini a ricondurre tutto a uno schema di significato intrinsecamente narrativo. Quello di narrare (lo spiega bene Gottschall) è un istinto universale dovuto alla necessità di dare una spiegazione al mondo e agli eventi. È per questo che la mania del complotto è tanto diffusa e inalienabile. E lo stesso potrebbe dirsi della tipica visione degli uomini che induce individui e comunità a creare dei nemici in opposizione ai quali definire un’identità.
«Non è vero che gli italiani non hanno nemici. – scrive Eco in Costruire il nemico – Non hanno nemici esterni, e in ogni caso non sono mai in grado di mettersi d’accordo per stabilire quali siano, perché sono continuamente in guerra tra di loro». E a Simei, direttore del fantomatico giornale di questo romanzo, fa dire «che oggi per controbattere un’accusa non è necessario provare il contrario, basta delegittimare l’accusatore».
Le storie, insomma, sono la sola vera immagine dell’esistente che la nostra società possegga e le strutture profonde che le regolano sono, in fondo, sempre le stesse. Manipolare la realtà è tanto più facile quanto più la narrazione è coerente e quanto più ogni elemento è inseribile in un sistema narrativo. Numero zero, per concludere, è un romanzo capitato, volontariamente o meno, nel momento storico in cui più si sente il bisogno di ragionare su questi elementi.
Numero zero, di Umberto Eco (Bompiani, pp. 224, 17 euro)
Foto di Matt Katzenberger