Il cuore “nero” dell’Africa post coloniale

In Letteratura

Lo svedese Henning Mankel, creatore della saga dell’ispettore Wallander, “sbarca” a Lusaka per ambientarvi un thriller psicologico dal gusto conradiano

Succede spesso con gli scrittori di culto: mi vengono in mente il libri postumi di D. F. Wallace o l’infinita serie di ripescaggi in nome di Terzani (non solo Tiziano). Ma talvolta, l’operazione nostalgia non è fine a se stessa. Henning Mankell (che ha – speriamo – solo temporaneamente posato la penna) è uno scrittore che nei suoi romanzi si è mosso nel tempo e nello spazio ma che è stato schiacciato dal successo della saga dell’ispettore Wallander. Ecco allora che questa può essere l’occasione per conoscere l’altro Mankell, quello che «ha un piede nella neve e l’altra nella sabbia». La neve della Svezia dove ha passato l’infanzia e la sabbia dell’Africa dove è andato per la prima volta nel 1973, dove ha fondato un teatro, una casa editrice, un’associazione per la lotta contro l’Aids e scritto molti dei suoi libri.

Fra questi c’è L’occhio del leopardo, pubblicato ora da Marsilio. Scritto nel 1990, prima del primo volume della serie di Wallander (che è del 1991), non è un giallo, ma suspense, crimine e violenza ce ne sono in abbondanza. Il quotidiano inglese The Guardian ha tirato in ballo Conrad, Celine e Greene per parlare del viaggio nel cuore delle tenebre di Hans Olafson.

Già, ma quali tenebre? Quelle di un continente devastato dal colonialismo di Viaggio al termine della notte di Celine o quelle di un’Europa benpensante e disillusa?

Hans Olafson cresce nell’interno più profondo del nord della Svezia, un paese dimenticato da Dio, senza madre, con un padre ex marinaio che si è arenato in una foresta che è diventata una prigione. Il suo unico amico d’infanzia rimane paralizzato e l’amore della sua vita è una donna a cui per un errore chirurgico è stato amputato il naso. Solo e alla deriva, Olafson atterra a Lusaka, capitale dello Zambia, una mattina di settembre del 1969, dove passa i successivi vent’anni della sua vita.

«Se il continente africano è nelle stesse condizioni delle scarpe dei suoi abitanti, allora il futuro è alle spalle, tutto è irrimediabilmente perduto». Fa un certo effetto leggere oggi queste parole nello stesso momento in cui sulle pagine dei giornali campeggiano le notizie su Ebola, l’ultima delle epocali epidemie che stanno devastano l’Africa. Fa un certo effetto perché, a 24 anni di distanza, l’Africa rimane un paese martoriato da una febbre ricorrente dove si cammina ancora con scarpe polverose e scalcagnate.

Qui Olafson si scontra con le sue emozioni contraddittorie, ascolta i mantra razzisti dei bianchi sopravvissuti al colonialismo, coltiva illusioni e si rende conto i sistemi logici e organizzativi dell’Europa sono inapplicabili.

Il risultato è un thriller psicologico che ruota intorno a corruzione, sedicenti gruppi rivoluzionari, transazioni illegali, dubbie organizzazioni umanitarie. E dove l’unica nota comica, in un romanzo privo di humor, è a spese dell’uomo bianco: «Basta chiamarmi Bwana!», «Sì, Bwana».

“L’occhio del leopardo” di Henning Mankell (Marsilio, pp. 333, 18,00 euro)

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