Teen Spirit è il nome di un deodorante a buon mercato ma il leader dei Nirvana scoprirà il suo significato irridente solo una volta che la canzone avrà ottenuto successo. Poi il motivo più rappresentativo del rock dei ’90 spingerà in vetta alle classifiche “Nevermind”, il secondo album del gruppo
E pensare che tutto è cominciato con un deodorante. Una serata su di giri agli inizi del 1991 fra il ventitreenne Kurt Cobain e la sua amica Kathleen Hanna, cantante della band di riot grrl Bikini Kill. Bevute tra un bar e l’altro, discussioni accese su punk e anarchia, muri e saracinesche imbrattati con le bombolette spray, un po’ di vandalismo brado, l’approdo finale a casa di lui. Dove Kathleen non esita a scrivergli su una parete “Kurt smells like teen spirit”.
Cobain è lusingato, pensa che sia un omaggio al suo ribellismo di giovanotto che abbaia alla luna. E invece è una presa in giro, perché Teen Spirit è il deodorante a buon mercato, messo in commercio solo un anno prima dalla Mennen (avete presenti quei dopobarba verdastri o color tabacco che trovate anche oggi nei supermercati?), che usava la sua ex fidanzata Tobi Vail, batterista delle Bikini Kill. Insomma, Kurt ha ancora addosso l’odore di lei, dissolvenza su come ha fatto a capirlo Kathleen.
Cobain scoprirà il significato irridente soltanto quando la canzone ha fatto il pieno – sesto posto nella classifica dei singoli, heavy rotation nelle radio e su Mtv, traino potente che sdogana il grunge e il rock alternativo e spinge il secondo album dei Nirvana, Nevermind, a occupare nel 1992 la vetta della classifica americana, vendendo più di cinque milioni di copie e scalzando dal trono Thriller di Michael Jackson.
Avete mai visto niente di simile alle nostre latitudini? Un inno generazionale, il manifesto di un decennio ispirato da Air Fresh o da Infasil, da Neutro Roberts o da Felce Azzurra? Anche Malizia (profumo d’intesa) avrebbe potuto essere al massimo una canzone buona per l’ombrellone o un tormentone dance da discoteca un po’ scrausa.
Quella notte brava, quella scritta sul muro, mettono in moto un meccanismo che si rivelerà implacabile. Cobain scrive il testo e continua a rielaborarlo (i suoi Diari, che Mondadori ha pubblicato nel 2002, contengono più di una versione), e alle prove con i compagni di avventura, il bassista Kurt Novoselic e il batterista Dave Grohl, si presenta che ha in testa soltanto un riff in fa minore e la melodia vocale del ritornello. Gli altri due, all’inizio, non sono entusiasti: “Ridicolo” è il commento di Novoselic. Cobain, che sarà anche nichilista e autodistruttivo ma almeno agli inizi la stoffa e le impuntature del capetto ce le ha, li costringe a provare il riff per un’ora e mezzo, e alla fine la canzone prende forma. Il 17 aprile 1991, trent’anni fa esatti, la prima esecuzione pubblica all’Ok Hotel di Seattle; poi l’incisione, a settembre l’uscita del singolo e dell’album. Che cosa dice Smells like a teen spirit?
Caricate le pistole e portate gli amici
È buffo perdere e fingere
Lei è arcistufa e sicura di sé
Oh no, conosco una parolaccia
Ciao, ciao, ciao, quanto giù?
Ciao, ciao, ciao, quanto giù?
Ciao, ciao, ciao, quanto giù?
Ciao, ciao, ciao!
Con le luci spente, è meno pericoloso
Eccoci qui ora, facci divertire
Mi sento stupido e contagioso
Eccoci qui ora, facci divertire
Un mulatto
Un albino
Una zanzara
La mia libidine
Ehi! Ehi! Ehi!
Sono il peggiore a fare ciò che faccio meglio
E per questo dono mi sento benedetto
Il nostro piccolo gruppo è sempre esistito
E sempre esisterà fino alla fine
Ciao, ciao, ciao, quanto giù? (…)
Con le luci spente, è meno pericoloso (…)
E mi dimentico perché assaporo
Oh sì, suppongo mi faccia sorridere
Lo trovavo difficile, era difficile da trovare
Oh be’, non importa, non ti preoccupare
Ciao, ciao, ciao, quanto giù? (…)
Con le luci spente, è meno pericoloso (…)
Una negazione
Una negazione
Una negazione
(ad libitum).
“Mi sento stupido e contagioso” e “Ciao, quanto giù” (ma “Hello, hello, hello, how low?”, il ritornello di indifferente, quasi impietrito furore di Cobain, nell’originale colpisce allo stomaco). Un manifesto di apatia e depressione, un fare tana nello “small circle of friends” e un buon sampler di autodenigrazione. Un piccolo sturm und drang illetterato. Una ribellione votata alla sconfitta e al cupio dissolvi perché già dai tempi del Werther ogni rivolta, se non regola i conti con i suoi bersagli, è quasi scontato che finisca per annientare chi la promuove. E comunque la canzone forse più rappresentativa del rock dei ’90, ancora oggi di immensa popolarità (su YouTube oltre un miliardo di visualizzazioni) e ripresa da esecutori eccelsi (Patti Smith, Tori Amos) e osceni oltre ogni dire (Paul Anka, a dimostrazione che il music business digerisce ben altro che i sassi).
Nella strana rivolta del grunge i Nirvana sono Cobain. Per carità, Novoselic è un discreto bassista, Grohl un batterista notevole (lo ritroveremo, sciolti i Nirvana, alla testa dei fortunati Foo Fighters) ma Cobain, chitarrista anche se non eccelso superiore a quanti si muovono sulla scena di Seattle, e soprattutto cantante e frontman grande e carismatico, tra i maggiori che il rock abbia espresso, fa la differenza. Un altro grande frontman, anche lui fra i maggiori del rock, a Seattle c’è: è il californiano trapiantato Eddie Vedder alla guida dei Pearl Jam, ma Cobain è unico nel rendere pubblico un dolore privato e sincero, trasformandolo in materia orecchiabile e comunicabile e colmando un vuoto che nel rock c’era dai tempi di Jim Morrison.
Seattle, quando i Nirvana conquistano le classifiche, è una scena vivace ma periferica. È, per così dire, una California di seconda mano, dove approdano da tutta l’America quelli che non ce l’hanno fatta (o che non hanno avuto neppure il coraggio di osare) a Los Angeles e San Francisco. Non ancora la città cool di Amazon e Microsoft, di Starbucks e Getty Images, la loro fama si consoliderà dopo. La musica che gira attorno è grezza, abrasiva, diretta: erede di una buona tradizione locale di garage e hard rock, con un’unica grandissima gloria cittadina, la chitarra incendiaria di Jimi Hendrix. Il grunge riprende la vecchia tradizione e la aggiorna: hard rock più punk più (ed è la novità) robuste iniezioni sottopelle di pop e di melodia (magari la melodia nevrastenica di Neil Young, non a caso nella lettera del suicidio Cobain citerà la sua Hey Hey my my: è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente). Grande inventore di melodie e testi indifesi o furenti, di manifesti nichilisti che diventano anche merchandising, Cobain (I hate myself and I want to die, canzone e t-shirt in vendita dopo i concerti: quindici dollari, prego).
Con lui arriva a maturazione l’ambiguità che renderà vincente il grunge per farlo declinare, salvo rare eccezioni, nell’arco di un decennio: una miscela potente e non troppo originale che però farà diventare mainstream il “rock alternativo”. Un estremismo giudizioso, se ci si perdona l’ossimoro, che porterà la scena di Seattle ad accasarsi con le multinazionali del disco (i Nirvana verranno presi sotto l’ala della vecchia volpe David Geffen, altri come Pearl Jam, Soundgarden e Alice In Chains approderanno ad altre major).
Questa ambiguità è in Cobain miscela vera e tragica – che ha alimentato a dismisura il mito postumo flirtando con la pornografia del dolore – fatta di infelicità, fragilità e smarrimento. La miscela esistenziale del bambino rifiutato dai genitori divorziati e cacciato di casa, del giovane talentuoso e sbandato, del precoce tossicodipendente, che annienterà Cobain a 27 anni: il suicidio con un colpo di fucile nel 1994, dopo essere scappato da una clinica dove avrebbe dovuto affrontare il rehab dall’eroina. Eroe di un’epoca del disagio che non poteva e non sapeva più ribellarsi, Cobain è stato una grande meteora con i suoi Nirvana che, conti alla mano, hanno lasciato in eredità soltanto tre magnifici dischi. Gli altri nove sono live e raccolte fatti uscire per spremere il limone, perché della rockstar non si butta via niente.