Officina della Scultura: l’arte che accade

In Arte

Si conclude oggi, ultimo giorno del 2024, la VII edizione di Officina della Scultura, manifestazione promossa da Fondazione Piero Cattaneo a cura di Marcella Cattaneo, che ha aperto le porte di nuovi luoghi del fare artistico nelle città di Bergamo, Milano e Sesto Calende. Un percorso di musealizzazione degli atelier della scultura del Novecento pieno di fascino e interesse culturale, per plasmare idee e soggetti nuovi in un prezioso scambio tra generazioni.

Finisce oggi, nell’ultimo giorno dell’anno, la VII edizione della rassegna Officina della Scultura a cura di Marcella Cattaneo e della Fondazione Piero Cattaneo. Una edizione, quella 2024, ricca di novità e di spunti di riflessione, che hanno il sapore del passato, del presente e del futuro: da Sesto Calende a Bergamo, passando per Milano, arrivando fino a Brescia e Venezia, si sono aperti al pubblico studi e case d’artista, archivi e parchi ambientali nella speranza di risvegliare la coscienza di un tessuto artistico vivo, fitto di esperienze scultoree suggestive.

Tra le molte finalità del progetto spicca il tentativo di “offrire l’inedita opportunità di assistere a importanti ed esclusive testimonianze storiche, conoscendo da vicino artisti che hanno segnato e fatto la storia dell’arte italiana del XX secolo, il cui lavoro è riconosciuto e apprezzato a livello internazionale”. Obiettivo raggiunto con grande successo: varcando le soglie di questi luoghi si ha la sensazione di avvicinarsi certamente a opere di grande rilievo ma soprattutto a persone straordinarie, scultori desiderosi di raccontarsi, artisti che entrano in dialoghi profondissimi con persone di ogni genere, chi è del mestiere, appassionati, studenti di diverse età.

Atelier di Piero Cattaneo, Bergamo

Le visite gratuite sono state grandi occasioni di confronto: a Milano a fine ottobre Gabriella Benedini (1932), poliedrica artista e scultrice cremonese, milanese d’adozione, ci ha trasportato in terre lontane. Le sue “Arpe di Ninive” sono calchi in gesso ricavati da una piccola imbarcazione, ritrovata nei luoghi culla della civiltà mesopotamiche: ribaltate, assemblate con cavi di metallo, costellate di segni che rimandano a ideogrammi cuneiformi diventano strumenti musicali, di grande poesia. “La scrittura, la musica, gli studi astronomici rendono il tempo misurabile grazie alla memoria” afferma Gabriella che, con grande verve, mostra una selezione delle sue opere e racconta di essere al lavoro su un progetto nuovo che reinterpreta il mito di Demetra, dea della natura, la cui figlia Persefone viene rapita violentemente da Ade e restituita alla Terra, per pietà di Zeus, solo per i mesi di primavera ed estate. Il tema è estremamente attuale: “Cosa stiamo facendo noi della Terra? Una desertificazione simile ai soprusi di Ade, legata al profitto, un principio maschile  che non ha rispetto dell’attesa, del lasciare spazio.” 

Studio di Gabriella Benedini, Milano

Paolo Gallerani (1943), già docente di Scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, ci accoglie in una assolata mattina di novembre nel suo atelier-archivio: una fucina nascosta di opere e strumenti di lavoro; ovunque ci sono volumi di arte, letteratura, filosofia, a un primo veloce sguardo sparsi casualmente, a ben guardare, invece, disposti secondo un demiurgico ordine; poesie, stampe di affreschi di Piero della Francesca, Masaccio, Carpaccio come parte integrante di assemblages di legni, fili, parti metalliche spesso raccolte da macchine belliche, uniformi militari, fotografie, corde, arnesi agricoli, gesso, bronzo, perfino incisioni nell’intonaco del muro. Un universo creativo che rivela uno sguardo acuto, personalissimo, a tratti biografico, a volte politico, sempre poetico. 

Atelier di Paolo Gallerani, Milano

Gallerani non inizia spiegando, vuole che gli si facciano domande, vuole che si entri in contatto con le sue opere e si parta da ciò che ci attrae, incuriosisce, interroga. È così che inizia un percorso tra le sue diverse esperienze, da quelle più lontane nel tempo – di quando arrivò a Milano sotto le bombe – ai fatti più recenti cui con la sua arte cerca di dare interpretazione, spiegazione. I suoi occhi attenti scrutano in quelli dei visitatori, a ognuno chiede di raccontare qualcosa di sé, del proprio lavoro, dei propri interessi. Per l’artista tutto è un interesse, nel senso etimologico del termine, ogni aspetto del reale è un essere-dentro, un partecipare, uno stare in mezzo. La scultura – dice – è una traccia d’essere, il segno dell’esistere: le lastre tombali, una vera e propria ossessione per lui, che si interravano nei pavimenti delle chiese monastiche sono uno degli esempi di scultura più intriganti; esse testimoniano l’esistenza di una persona, la sua morte e contemporaneamente con il levigarsi della pietra dato dal passaggio di tante e tante persone, in ginocchio o a piedi, documentano anche il passare del tempo, ciò che è rimasto di quella persona nel tempo, sono strati di memoria. Ogni scultore cerca questi strati, lo scultore deve “cercare i piani” come ogni docente suggerirebbe ai suoi allievi. 

Questa stratificazione accompagna molte delle opere di Gallerani, in alcune più evidente – sono bellissimi alcuni rilievi a stiacciato che ricordano ancora ingranaggi e marchingegni come in un moderno bassorilievo di Piranesi – in alcune più sottile e intellettuale come in alcune delle fotografie a un missile da guerra ritoccate, dipinte, incise. Macchine con una bellezza intrinseca che si trasforma in un oltre grazie all’intervento dell’artista: una foto in particolare ritrae fasci di cavi elettrici tenuti assieme che ripresi in quel  modo sembrano volte gotiche, antichi alberi di pietra. 

L’albero è uno dei suoi soggetti principali, una delle forme più affascinanti, archetipo di ogni costruzione (cita qui il saggio di George Hersey, Il significato nascosto della architettura classica) come rivelano a volte le colonne ad tronchonos, come sembrano suggerire alcuni capitelli corinzi: Gallerani ci mostra proprio alcuni intricati capitelli sia in versione plastica sia grafica che ricalcano proprio formazioni arboree, affisso al muro poi c’è un disegno a inchiostro di un tronco riempito di rami amputati, bellissimo. Gallerani cita Mc Luhan dicendo che all’amputazione si risponde con la dimenticanza, noi viviamo di amputazioni, di cose che ci  vengono tolte. Un disegno drammatico dunque, capace di raccontare una profondità.

Poi riflette sulla tecnologia, di cui apprezza tanti aspetti, ma sottolinea come essa ci ha progressivamente privato dell’atto dello scrivere, ci ha tolto la calligrafia intesa come gesto e come segno. Prende un foglio e traccia dei segni con la matita mostrando che scultura e scrittura hanno la stessa radice che significa incidere, si può dire che la scrittura – come avveniva un tempo sulle tavolette di argilla o di cera – è una scultura con profondità 0, rimane sul piano ma apre tantissimi piani di esistenza e di lettura. Tra suggestioni, riflessioni e racconti diventa una mattinata densissima, leggera ed esistenziale al tempo stesso. 

Ecco, in questo senso forse il titolo della rassegna assume tutto il suo spessore: questi incontri diventano delle officine vere e proprie. Forse non si creeranno sculture plastiche ma certamente si stanno costruendo e plasmando idee e soggetti nuovi, qualcosa di preziosissimo.

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