A soli 55 anni si è spento, dopo una lunga malattia, Okwui Enwezor, critico d’arte e curatore tra i più noti e carismatici al mondo. Primo africano a percorrere una carriera “established” nel sistema dell’arte alla maniera occidentale – passando anche per Documenta a Kassel e Biennale di Venezia – ha portato il suo discorso e la sua visione al centro del campo d’azione per costringerlo a un ripensamento di paradigmi ancora post-colonialistici. Lo ricordiamo con un testo inedito di Andrea Contin del 2015, che ora più che mai mostra come fossero anticipatorie e come siano drammaticamente attuali le istanze da lui sollevate.
Alla Biennale di Venezia curata da Okwui Enwezor, primo curatore nativo africano della rassegna, in una sala dedicata ai memorabilia dell’istituzione stessa mi sono imbattuto nella riproduzione di un articolo che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1972 per il quotidiano Il Tempo, riferendosi alla discussa e discutibile “operazione mongoloide” di quel monumento schizoide al genio e alla boutade che fu il Gino de Dominicis.
Quella che P.P.P. fece fu prima di tutto un’operazione letterario-performativa: chiamato a commentare la fulminea azione di esposizione del disabile reificato, Pasolini sgrana una lunga e complessa riflessione su finte avanguardie e strumentali rivolte, centrandosi sul qualunquismo come prodotto di una sottocultura medioborghese vacua e gratuitamente provocatoria, e relegando l’attenzione alla bravata politically uncorrect del Gino alle ultime due righe.
Questa è già poesia visiva, se non pittura egizia, in cui le macro-sproporzioni tra divino e umano non lasciano dubbi o incertezze sull’effettivo valore del secondo rispetto al primo. Ridotto a Ginetto il Gino, quel che conta è dunque il demone della sottocultura, che prefigura già tutti gli epigoni squarta-vacche e appendi-bimbi (con rispetto parlando, per carità) che si sarebbero da lì diramati e succeduti, figli di un mondo in cui ci si è ostinati a voler far finta di vivere, circondati e sostenuti da oggetti capaci di alludere solo a se stessi e al vuoto identitario e culturale che li ha prodotti.
Ma oggi non si può più. L’aver tenuto il vero malessere fuori dal confine tra un arbitrario “noi” e un qualunque “loro” – che sia “il resto del mondo” raccontato dalla Biennale di Enwezor o il “diverso” raccolto in quella di Gioni – per continuare a credere al nostro finto benessere; l’aver messo pomate omeopatiche su bubboni che erano in realtà eruzioni sintomatiche di patologie ben più gravi; l’aver continuato a pensare che “tanto son sempre gli altri che muoiono”: tutto questo non funziona più e da qualche giorno, dopo gli attentati al Bataclan e per le strade di Parigi, nessuno può più far finta di niente.
Quello che l’articolo di Pasolini indirettamente ancora chiede è che si ritorni alla realtà, al di là delle sue più becere rappresentazioni, e la cronaca recente altro non è che un esame di realtà di questo tipo. Così come lo è – pur con alcuni inevitabili limiti fenomenologici – la Biennale di Enwezor, intitolata All the world futures, che a quell’articolo e a quella richiesta di Pasolini in qualche modo risponde.
Accusato (come sentito dalle mie proprie orecchie) di “averci messo troppi negri”, di aver fatto “retorica terzomondista” e “populismo strumentale sulle disgrazie altrui” che sue più non sarebbero in quanto ormai “asservito al sistema occidentale”, Enwezor ha ricevuto, a pochi giorni dalla chiusura della mostra, la più tremenda e meno desiderabile delle conferme: un mondo che – tra lo stupore generale, ebete e in molti casi in malafede – minaccia con leggerezza una terza guerra mondiale, la cui puzza si sentiva da tempo senza però che nessuno si premurasse di chiamare il camion dello spurgo, per evitare che la fogna ci gonfiasse irrimediabilmente la libreria in truciolare dell’Ikea.
Non poteva che essere questa, la Biennale del nostro Quindicidiciotto: quella che ha provato a mettere in discussione il feticcio sottoculturalmente gestibile, lo spernacchio che fa ridere il borghese (che esiste ancora, altroché, e con tutta calma ha plasmato a sua immagine il pensiero e le emozioni del popolo già bue) mostrando luoghi, persone e procedure, smontando la nostra compulsione feticistica in frazioni di umanità da rimontare in altro modo rispetto a quanto fatto finora.
Credo che l’inno al “fare” che si alza dal progetto di Enwezor sia stato un tentativo di tracciare una strada diversa, poco importa se riuscito o meno purché contribuisca ad aprire una discussione che porti a un cambio di paradigma, inevitabile, urgente ma forse tardivo: la strada del processo con cui le cose si fanno, che trasforma l’azione in pensiero, contatto, condivisione e conoscenza reciproca. Quella della realtà, per quel che questa parola possa voler dire e per quanto tremenda e inaccettabile ci possa comunque apparire.
23 novembre 2015