Uno spettacolo leggero, o meglio, di solida leggerezza, con due grandi Stoppa e Picello
FOTO DI TEATRO RINGHIERA ATIR
L’istante del volo. Il momento in cui il funambolo è sospeso tra la solidità di quello che ha lasciato alle spalle e la potenziale catastrofe di ciò che l’aspetta. Se si potesse fermare in una immagine, Aldilà di tutto, in anteprima al Teatro LaCucina, sarebbe questa. La percezione di equilibrio data dalla sua assenza che permette all’acrobata di disegnare la sua performance. La leggerezza della danza nell’aria, di cui la caduta è parte. Giovanna infatti fa questo.
Vola e cade, davanti agli occhi di chi le vuole bene, e solo finché volta scorda il peso che le lega le caviglie, che questa volta le impedirà di fermare la caduta sul palo cinese a un palmo da terra. Eppure la sua amica ci prova, a mettere le sue braccia nel mezzo, o forse solo a prolungare l’istante all’infinito. Ci prova anche quando la battaglia è già persa, e sull’isola in cui aveva condiviso con Giovanna gli ultimi morsi di vita porta un’altra amica, anche lei su un filo, ancorché diverso.
Chiara Stoppa continua il viaggio attraverso la malattia iniziato col fortunato. Il ritratto della salute raccontando l’altra faccia della medaglia. Lo fa spostandosi dal centro della scena per assumere i panni di chi accompagna, e con la grazia del funambolo in equilibrio tra leggerezza e angoscia, rabbia e commozione.
Infilandosi nell’interstizio più rimosso dell’esistenza, quello – lucido – tra la vita e la morte, si scopre che, se si è in grado di farlo senza retorica, si ride anche molto, e il viaggio verso un campeggio nudista diventa un frammento di road movie sgangherato che non annacqua nulla, e al contrario libera la verità del momento dalla polvere dell’enfasi superficiale.
A rendere possibile questa cifra originale e sorprendente, ordinata da Carlo Guasconi, la collaborazione autoriale e attoriale di una Valentina Picello nevrotica e disperata, che si rifugia nelle benzodiazepine, che si assume con coraggio e valore un ruolo tutto fuori righe, come è solo il sentire profondo che siamo abituati a nascondere.
Perché in questo spaccato concretissimo e poetico insieme, la riflessione sulla morte e la malattia è la prima patina visibile. Sotto c’è il vivere, che si avvita, sale e scende sul palo come le interpreti che – nella regia che con la collaborazione di Lorenzo Ponte di disegna per linee essenziali – si dibattono nella ricerca di un equilibrio che le definisca. Lo cercano nell’esigenza, ostinata e illusoria, di avere cura, di salvare e riportare in asse anche ciò che ci soverchia, e dall’altra parte nell’abbandono alla disperazione e alla paura di tutto che porta a nascondersi della vita e che pure ne vele il più ostinato attaccamento. La malattia così si fa quasi pretesto, estremo quanto basta, per raccontare un incontro e uno sconto che mette a nudo, senza girarci intorno, una verità lacerante: il bisogno di reagire all’esistenza, le contromisure goffe e istintive alla paura, la ricerca ossessiva della giusta misura del passo che permetta di restare sul filo, che passa inevitabilmente da un reciproco aggrapparsi e poi dalla coscienza che il salto non si può affrontare che soli.
E in tutto questo cercare, risposte e ragioni, la lezione resta quella del funambolo e della sua assenza di peso. La sua lucidissima incoscienza. È nel suo abbandonarsi all’aria e danzare con essa che il funambolo trova il modo di stare in volo. Ed è così, nella resa a ciò che accade e a ciò che potrebbe accadere, anche quando ha la forma di un simpatico cane fulvo comparso chissà da dove, che si disegna una strada e un Punto possibile dove il filo finisce, anche se è solo un nuovo trampolino.
Valentina Picello e Chiara Stoppa, con la supervisione di Arturo Cirillo, confezionano un lavoro che – oltre a rimarcarne il valore e la vitalità interpretativa – guarda in modo efficace e denso all’esistenza, sfiorandone le spigolature e le ferite aperte con grazia ma senza reticenze, inchiodando chi osserva a quanto di sé scova in entrambi i caratteri, allo specchio in cui può non essere facile riconoscersi, perché può esserlo fare pace con la nudità delle emozioni più ancora che con quella – qui evocata – dei corpi.
Eppure è necessario chiederselo, per decidere di non farlo più. Per poter scegliere di “affrontare la vita con più leggerezza”. Perché anche l’acrobata è chiamato ad aggrapparsi, ma “una presa solida mi fa pensare a una contrapposizione, una presa più leggera mi fa pensare a qualcosa di completamente”. Ed è solo con la presa giusta che l’acrobata può spiccare il volo. Pensare di vivere, quando la vita c’è, e quando viene meno, con la stessa eleganza, Lasciare, e lasciarsi andare.