Onegin: il rischio si addice a Martone

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Il grande artista napoletano, alla sua decima regia scaligera, lascerà il segno anche questa volta? L’azzardo è nostro, il rischio condiviso. Con “Evgenij Onegin” di Čaikovskij, da stasera al Piermarini, il regista non ha previsto un allestimento di soli interni (alle scene la pluripremiata Margherita Palli) ma una lettura psicologica del rapporto tra Tat’jana ed Evgenij tracciata dal caldo del primo amore al gelo del distacco. Sul podio a condividere la scommessa Timur Zangiev

Un rischio, ma calcolato. Quale? Azzardare che Evgenij Onegin di Čaikovskij, che la Scala mette in scena, nuovo nuovo, da oggi all’11 marzo sarà lo spettacolo più “da vedere” non solo di questo inizio d’anno. La regia è di Mario Martone, che alla Scala ha firmato una magica serie di produzioni che hanno lasciato il segno, tutte. 

Resta indelebile nella memoria l’essenzialità della prima: Cavalleria rusticana di Mascagni (2011) consegnata a una scena di sole sedie; una messa religiosa e laica in cui tutto avviene come rito collettivo di una società che vive anche la violenza come parte inevitabile di sé. Anche l’accostamento con i Pagliacci è sintonizzato (con tocchi felliniani) alla lettura asciutta, antiretorica di Daniel Harding, che pure usciva dalle sue vie cesellando con taglio sinfonico l’espansività del repertorio verista. 

Verdi
Il successo del dittico italiano, italianissimo, apre a Martone la strada di un doppio Verdi giovanile: Luisa Miller nel 2012 e Oberto, conte di San Bonifacio nel 2013. La narrazione di Luisa viene concentrata, dice Martone, nei suoi elementi essenziali: «un letto, due padri, un figlio, una figlia, un bosco, una claustrofobica aula del potere, un’amante risentita, un demonio». Elementi essenziali ma in compresenza quasi “onirica”, bellissima. 

Per Oberto, la prima opera scritta da Verdi nel 1839, debuttata alla Scala, l’affondo della rilettura storica è di evidenza e violenza straordinarie. La faida di famiglie, che nel medioevo di Ezzelino da Romano si contendono il dominio del Veneto, viene proiettata nella realtà dello scontro politico, sempre vivo nell’attualità di ogni tempo e generazione.  «C’è ancora quella ferocia, ci sono ancora quelle guerre tra bande in cui le alleanze nascono sui tradimenti – sintetizzava Martone -, c’è ancora quel sanguinario senso dell’onore come schermo della violenza maschile che le donne subiscono o combattono ad armi impari». Oberto diventa così il «medioevo nostro contemporaneo delle società mafiose e camorristiche», del quale scopriamo la povertà mentale nelle case kitsch svelate in tv e replicate nello spettacolo. Ed emerge con evidenza modernissima l’indagine dei rapporti tra padri e figli che sarà motivo conduttore di tutto Verdi, insieme alla cura dei personaggi femminili.

Nel 2016 con La cena delle beffe di Umberto Giordano è ancora forte la proiezione contemporanea, e lo spettacolo inaugurail rapporto di fiducia di Martonecon Margherita Palli, storica scenografa di Luca Ronconi (clamorosamente belle le prospettive sghembe di Lodoiska e di Tosca, per restare alla Scala), e con Ursula Patzak per i costumi. 

La forza dei primi cinque risultati (contando i titoli) conquista la fiducia di Riccardo Chailly, che nel 2017 affida a Mario Martone il ritorno di Andrea Chénier in un sette dicembre, gesto quasi osé. Un altro titolo quanto mai scaligero, Fedora, conclude nel 2022 una trilogia-Giordano piena di sorprese che la fanno slittare fuori dalla tradizione.  
Musorgskij
Un vertice, se non “il” vertice, Martone lo tocca con la lettura “oltre la storia” di un’opera storica per eccellenza, Chovanščina di Musorgskij. La Russia di Pietro il Grande viene proiettata sullo schermo di un visionario futuro nel quale tutto è palpabile. Impressionanti il movimento delle masse, la dinamica dei personaggi, l’intreccio di scene da tenebra che vanno ad aprirsi, non chiudersi, nel finale di un sole infuocato. Qui al capolavoro di Martone si unisce quello di Margherita Palli.

Tre anni dopo, nel 2022, deflagra una rilettura di Rigoletto che sostituisce, nel repertorio della Scala, lospettacolo tradizionalissimo di Gilbert Deflo, ripreso negli anni fino al consumo. Ancora una volta Martone artiglia il cuore dell’opera immergendo in una realtà a noi conosciuta il rapporto tra potenti e miserabili, legandoli a un comune destino tragico che il finale extra-opera, discusso ma potente, rivela. 

Čaikovskij
Si arriva all’oggi con un ritorno alla Russia, ma la più intima. Onegin è il dramma di due inquietudini che non si incontrano, Tat’jana ed Evgenij. Prima lei è innamorata persa, lui freddo e distaccato. Poi, nel nuovo incontro a carte cambiate (lui di ritorno due anni dopo aver ucciso in duello l’amico Lenskij, lei ormai sposata al ricco Gremin), l’innamorato è Evgenij e la saggia è Tat’jana. Fine, niente di più. Ma «che profondità poetica», confessa Čaikovskij dopo aver scoperto il dramma in versi di Puškin che lo aveva lasciato perplesso. «Non mi faccio illusioni. So benissimo che ci sono pochi effetti scenici, ben poco movimento». Ma a Pëtr Il’ič non importa che ci sia poca azione, vuole “sentimenti normali, semplici, universali”: un atto di coraggio nel 1879, un gesto quasi sperimentale. Tanto che dopo la prima dell’opera, Čaikovskij è tentato da una conclusione in cui Tat’jana che cade tra le braccia di Evgenij. Banale, così ripristina il finale con l’inevitabile addio tra i due innamorati asincroni. Finale puškiniano, poetico, modernissimo. Unica esigenza irrinunciabile: avere «cantanti che sappiano recitare in modo semplice e convincente». E questo è ciò che consegna l’opera di Čaikovskij alle attese di oggi. Un’opera “interiore”, da regista, nelle mani di un regista. 

Capitolo dieci
Non sarà però un allestimento di soli interni, questo Onegin, ma una lettura “psicologica” tracciata dal caldo del primo amore al gelo del distacco. «Ho voluto immergere l’opera di Čajkovskij innanzitutto nella natura – avverte Martone –. Marcare l’estate del primo atto e l’inverno del secondo, scegliendo di ambientare tutto in esterni, tra il fieno appena tagliato e il ghiaccio che in gennaio copre i campi.  Avendo come sfondo i cieli immensi che la lettura del poema/romanzo di Puškin evoca nella mente del lettore, il sole, la luna e le stelle della sterminata campagna russa. L’unico interno della tenuta delle Larin che ho voluto in scena è la stanza di Tat’jana, una “stanza tutta per lei”. Una stanza in cui ci sono solo libri e basta, ossia l’altro orizzonte immenso, oltre a quello della natura, presente sul palcoscenico».

Mario Martone (foto © Luisa Martone)

Il cast destinato a seguire scrupolosamente i segni di Martone e di Čaikovskij insieme, ha un protagonista maschile già noto, Alexey Markov, che ha cantato in Chovanščina, La Dama di picche e Boris Godunov, e una debuttante, Aida Garifullina, ascoltata solo in concerto. Dmitry Korchak è Lenskij, Elmina Hasan la tenera Ol’ga, Dmitry Ulyanov il principe Gremin, Julia Gertseva la balia Filipp’evna.    

Sul podio sale di nuovo Timur Zangiev, classe 1994,che nel 2022 aveva sostituito Valery Gergiev nella Dama di picche. 
Riassumendo. Decimo capitolo di Mario Martone alla Scala, con un’opera che più da regia è difficile immaginarla.

Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Teatro alla Scala di Milano: Pëtr Il’ič Čajkovskij Evgenij Onegin. Dirige Timur Zangiev, regia di Mario Martone, scene di Margherita Palli, costumi di Ursula Patzak  (19, 22 febbraio; 2, 5, 8, 11 marzo)

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