L’Opera da tre soldi è certamente un classico del teatro brechtiano ma soprattutto un classico del Piccolo teatro da quando, in quell’ormai lontano 1956, Giorgio…
L’Opera da tre soldi è certamente un classico del teatro brechtiano ma soprattutto un classico del Piccolo teatro da quando, in quell’ormai lontano 1956, Giorgio Strehler ne curò una messa in scena che faceva ben affiorare i mille significati di questo testo così critico nei confronti di un mondo ingiusto e inesorabile. È uno spettacolo-manifesto di quei temi e di quella qualità artistica e intellettuale tanto cara ai fondatori del Piccolo, di quel teatro epico capace, con le sue invenzioni stranianti, di far ragionare lo spettatore e restituirgli il lume della coscienza riguardo alla sua condizione attuale.
Uno spettacolo che gioca su sottili equilibri stilistici e musicali e rende la riflessione critica su economia, società e politica alla portata di tutti e non ultimo si propone di educare lo spettatore a gusti artistici di qualità e Damiano Michieletto, a distanza di tempo da quelle magistrali idee ne propone una versione che rende contemporaneo il testo del 1928 con una nuova traduzione più attenta alla resa filologica musicale e memore delle contaminazioni tra generi che ne costituiscono il mosaico scenico.
La storia è sempre la stessa, tratta in origine dal Beggar’s Opera di John Gay, racconta le vicende del gangster Mackie Messer che in spregio alle autorità ( complice tuttavia l’amico Brown), si barcamena in una poco regale Londra per sposare Polly Peachum, andando contro i genitori di lei e subendo il tradimento delle persone a lui più strette o delle innumerevoli ex, Lucy e Jenny delle Spelonche in primis è infine catturato e condannato a morte.
Il leitmotiv scenografico dell’Opera sono le rigide sbarre di un’aula dove per tutto lo spettacolo si consuma il processo della vita di Messer: i gradini della giuria, il banco del giudice e i microfoni dei testimoni alternano i momenti di una metateatralità esibita ad ambienti letto, ora bordelli, ora prigioni, ora piazze, tutto rigorosamente contenuto in una cella, movimentata da luci ben precise.
Il leitmotiv rappresentativo invece, ricalca la commistione degli stili che l’Opera contiene: né uno spettacolo di prosa, né un varietà, né un musical, né un’esibizione di danza o di lirica ma tutti quanti intersecati abilmente nell’espressione volutamente asistematica che lo stesso Weil pensò quando scrisse le musiche. Si alternano momenti sincopati in cui allo spazio offerto agli attori cantanti in solitudine a momenti più mimici, corali, descrittivi o metaforici, che evocano talvolta un pop visionario infantile come è il caso delle scene capricciose di Polly, condite da pupazzetti e palloncini talvolta più realisticamente ancorate ad un’amarezza cruda e tangibile, come i salvagenti che si librano nell’aria parendo anime di migranti perduti.
Anche la traduzione di Menin riporta all’origine i luoghi della pièce dall’americana Chicago alla capitale britannica, scandita dagli ‘a parte’ visivi di un messo che congelando il tempo porta su un tavolino l’occorrente per la cerimonia di incoronazione. L’adattamento non è più quello ammiccante al boom economico degli anni Sessanta usato da Strehler, ma un più aspro lavoro che punta a far emergere la durezza della povertà, la corruzione e l’inevitabilità della condizione dei personaggi. Quella che si consuma è fondamentalmente una guerra tra poveri in cui timbri vocalici differenti, (applauditissimi Servillo, Piccioni e Roveran) portano anche tratti psicologici ed progetti esistenziali differenti. Bellissimo il duetto Lucy-Polly come le coreografie d’ensemble, e la presenza scenica di Rossy de Palma, il cui accento spagnoleggiante si addice perfettamente al ruolo della maitresse di un bordello a tinte rosse, sconfinando abilmente nei giochi mimici di una soubrette da rivista.
La sua è una figura che assieme alle altre destruttura e contraddice una linea interpretativa precisa a favore della ricchezza espressiva, della commistione di idee che grazie a quello sprechesang brechtiano danno vita a una mescolanza di ritmi e codici musicali. Nella drammaturgia complessa e variegata dell’Opera da tre soldi tutto è funzionale alla ben precisa tesi della brutalità e del cinismo di una realtà che agli affetti ha anteposto il benessere, alla lealtà la corruzione e alla giustizia il puro denaro, in un circolo che dal prologo all’epilogo non fa che rimarcare il verdetto del boia.
La grazia regale è uno spiraglio passeggero di una selezione finanziaria artificiale in cui il povero Mackie, pur essendo ladro e assassino, pare fare una figura migliore di tutti gli altri. La messa in scena di Michieletto estetizza e reinventa, forse attutisce qualche colpo basso, ma rendendo omaggio ad uno degli autori più interessanti e prolifici del Novecento.