A oltre dieci anni dal suo film da Oscar, Florian Henckel von Donnersmarck torna a raccontare la dolorosa, drammatica storia della sua Germania in “Opera senza autore”. Kurt, ispirato al grande pittore Gerhard Richter, bambino durante il nazismo, diventa cittadino della Repubblica Democratica e infine fugge a Dusseldorff dove si afferma come artista blasonato. Ma ciò che gli fa ritrovare la sua strada di autore è la grande chance di una fotografia o di un quadro di raccontare davvero la realtà
Dresda, 1938. Kurt Barnert, il protagonista di Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck, ha sei anni ed è innamorato della zia Elizabeth, che suona il pianoforte, dipinge, e lo porta a visitare i musei, dove una guida zelante mette alla gogna alcuni dei massimi artisti del Novecento, definendo i loro dipinti arte degenerata in grado di corrompere il popolo tedesco. Zia Elizabeth (Saskia Rosendahl) è troppo fragile, creativa e pazzerella per sopravvivere nella Germania nazista, e finisce nella clinica diretta dal professor Carl Seeband (Sebastian Koch); da lì direttamente nell’inferno dei campi di sterminio, insieme a tutti coloro che potevano mettere in pericolo la purezza della razza ariana. Tutti gli innocenti che l’ubbidiente popolo tedesco, fra repubblica di Weimar e terzo Reich, aveva imparato a considerare il perfetto “capro espiatorio”, responsabile di ogni crisi politica e difficoltà economica. Quindi da eliminare.
Alla fine della guerra ciò che resta di Dresda (sottoposta nel febbraio 1945 a un terribile bombardamento e praticamente rasa al suolo) finisce sotto il controllo dell’Armata Rossa e nella successiva spartizione dell’Europa rimane in quella parte di Germania che per oltre quarant’anni vivrà all’ombra della grande madre Russia, marciando a occhi bassi nelle immense parate militari e sognando un altrove fatto di supermercati colmi di cibo, calze di nylon e altre banalità (banalità per noi, cresciuti nell’altro pezzo di Europa).
Nel 1961, appena un attimo prima che la DDR (la Repubblica Democratica di Germania) venga simbolicamente sigillata con la costruzione del Muro di Berlino, Kurt (Tom Schilling), nel frattempo cresciuto e diventato un esponente di punta del realismo socialista, riesce a passare all’Ovest. Troverà una nuova patria nella Germania federale e la sua strada come artista all’interno delle sperimentazioni delle avanguardie degli anni Sessanta, fra espressionismo e astrattismo. Porterà però con sé Ellie (Paula Beer), la sua amatissima moglie, figlia proprio del medico nazista che aveva deciso il destino di zia Elizabeth, quello stesso professore che grazie alla sua diabolica abilità di opportunista voltagabbana era riuscito a mantenere ricchezza e privilegi anche nella Germania comunista. Insomma, anche nella sua nuova vita non potrà fare a meno di trascinare con sé i fantasmi sanguinosi della passata storia tedesca.
È liberamente ispirato alla vita del celebre pittore Gerhard Richter il nuovo film di Henckel von Donnersmarck, che torna a parlare del suo Paese dodici anni dopo il folgorante esordio di Le vite degli altri, Oscar per il miglior film straniero. Ritorna alla Storia con l’iniziale maiuscola e alle sue terribili tragedie, dopo la parentesi scanzonata (e decisamente malriuscita) della commedia thriller The Tourist, e dimostra subito di trovarsi ben più a suo agio su questo terreno. Il regista, nato a Colonia nel 1973 in quella che era allora la Germania Ovest, è cresciuto fra Bruxelles e New York, parla cinque lingue fa parte a tutti gli effetti di quell’aristocrazia cosmopolita che ha casa nel mondo più che in un singolo paese. Eppure la storia della sua Germania, su entrambi i lati di quella che una volta si chiamava la Cortina di Ferro, pare l’unica capace di fornire autentico materiale al suo talento e alla sua immaginazione. Anche se l’ispirazione potente del primo film qui appare un po’ appannata, incerta, timida quasi.
Tutta la prima parte di Opera senza autore, diciamo tutta quella ambientata all’Est, sia nella Dresda nazista degli anni Trenta sia in quella socialista dei Cinquanta, vanta una messa in scena corretta, buoni attori, una discreta ricostruzione d’epoca, dialoghi efficaci e momenti commoventi: ma non riesce a convincerci davvero della necessità (o anche solo dell’utilità) di dedicare così tanto tempo alla visione di un’opera che dura la bellezza di 188 minuti. Di film che ci hanno raccontato le nefandezze del nazismo, programmi di eugenetica compresi, negli ultimi anni ce ne son stati tanti e questo sembra incapace di aggiungere un tassello davvero significativo al quadro. E anche la descrizione della nebbia grigia che ottunde lo sguardo e paralizza talento e coraggio nella Germania socialista era stata già descritta in modo ben più efficace dallo stesso regista.
Quindi? Quindi bisogna avere la pazienza di aspettare la seconda parte di Opera senza autore, quando finalmente Kurt sbarca all’Ovest, a Düsseldorf, e con immensa fatica trova nella pittura (e nella fotografia) uno strumento di scandaglio del reale e di interpretazione della storia come grande inconscio collettivo, fra ritorno del rimosso e rielaborazione del lutto, e in un drammatico corpo a corpo con un passato che non passa. Nell’ultima ora di film il protagonista torna sulla sua strada di artista, e anche il regista sembra finalmente decidere qual è l’intento vero della sua opera: non tanto raccontarci l’orrore della tirannia nazista e la tristezza del totalitarismo socialista, ma esplorare la possibilità che l’arte sia davvero capace di raggiungere il cuore nero di ogni assolutismo. E raccontarcelo, dirci attraverso una fotografia in bianco e nero che diventa paesaggio e volto, e poi sguardo e infine quadro astratto, ciò che un libro di storia non riesce del tutto a fare. Dire l’indicibile, chiudendo un attimo gli occhi per poi riaprirli con maggiore lucidità.
Opera senza autore, di Florian Henckel von Donnersmarck, con Tom Schilling, Sebastian Koch, Paula Beer, Saskia Rosendahl, Oliver Masucci, Cai Cohrs