A tu per tu con Ornella Vanoni a una settimana dalla serata al Piccolo ‘dove sono nata’ dice lei: Milano, Giorgio Strehler, il loro rapporto e la rottura, la timidezza da superare e il tanto lavoro ‘come un soldato’. E adesso nulla da dimostrare ma una voce ‘bella come non l’ho mai avuta’
Nata in una Milano ancora nebbiosa, cresciuta all’estero tra collegi, rinata poi al Piccolo. Infine la musica. È questo il percorso di Ornella Vanoni: attrice quasi per sbaglio, poi cantante per determinazione, scortata per tutta la vita da una voce sensuale, complessa e mai prevedibile, perfetta per Senza fine di Paoli come per la bossa nova o il jazz. Ma anche per le ballate della Rivoluzione che le faceva cantare Strehler nei cambi di scena dei Giacobini di Zardi, col pubblico in sala fino a notte fonda nell’aprile del ’57. Il 28 ottobre, nel teatro intitolato al suo maestro, al suo Giorgio, detto sempre con la o un po’ chiusa, Ornella ci riporterà a quegli anni di Milano dispersi nella nebbia. È il repertorio finto popolare delle canzoni della mala, a volte in dialetto, che non arrivano dalle osterie lombarde ma dal tavolino di Strehler, con la complicità di Fiorenzo Carpi, Gino Negri, Fausto Amodei, Dario Fo. Canzoni inventate che parlano di carcerati e balordi, di vite violente che si fondono con il freddo e il buio di periferie testoriane: un tram che va all’Ortica, una sirena che vosa verso il curs Sempiun, personaggi sbattuu de su, sbattuu de giò, che Ornella risveglierà per il suo pubblico.
Ha nostalgia di quegli anni?
Nella memoria non deve esserci mai sofferenza. Se c’è o c’è stata non la voglio ricordare: è un segreto che tengo dentro di me. In vita mia sono stata anche infelice, ma cerco sempre di ricordarmi solo il meglio. Soprattutto di quel periodo con Giorgio, dopo la scuola del Piccolo, penso ai momenti più belli: parlarne sul palco sarà come riviverli. Pensare che, poverino, quel teatro lui non l’ha mai visto.
La serata si chiama Sono nata qui.
Nel senso che sono nata proprio lì, al Piccolo, guardando Giorgio provare. Ero una ragazza borghese senza nessun sacro fuoco, senza neanche la percezione di avere un vero talento.
Lei parla spesso della sua timidezza di quegli anni.
Allora non avevo coraggio, non avevo nessuna stima di me. Ricordo che Giorgio mi diceva sempre: Amore hai un grande talento ma non hai i nervi. Ho sofferto molto. Poi piano piano mi sono fatta le ossa.
Colpisce che un’artista con il successo che ha avuto lei parli di insicurezza.
Non ci crede mai nessuno. Del resto un conto è se è timida Orietta Berti, ma se hai un certo portamento, un certo fisico, sono sempre tutti lì a dirti: Ma va, ma figurati. Invece ricordo che persino uno come Gassman era timido, anche lui ha fatto molta fatica. Per me è stata una battaglia: una battaglia con me stessa.
Si ricorda il momento in cui l’ha vinta, questa battaglia?
È stato con Paoli, quando abbiamo fatto Insieme.
Sparita la timidezza, ora cosa resta?
C’è solo emozione, che è un’altra cosa. Prima della serata del 28 sarò emozionata.
Ma non avrà paura.
Arrivata a questo punto perché dovrei averne? Non ho mai avuto la voce bella come adesso. Ormai canto con tutta me stessa: la mia voce parte dai piedi, arriva al cervello, ai capelli. Perché mi sento libera, non me ne frega più niente di Ornella Vanoni, non devo dimostrare più nulla a nessuno, nemmeno a me stessa.
Invece all’inizio era diverso.
Allora battevo i denti ogni volta. Chiunque con la paura che avevo io avrebbe rinunciato. E invece sono andata avanti come un soldato bernese.
Si può dire che il suo fosse un destino.
Una specie di destino. Ma un destino che ho seguito io, che mi sono scelta.
Quindi non bisogna solo aspettare che si compia, il destino?
È difficile spiegare la differenza. So solo che un giorno ho capito che dovevo lottare per ottenere quello volevo. E poi avevo un grosso problema: dovevo dimostrare a Strehler che ce la potevo fare anche senza di lui.
Dopo la vostra rottura è più andata a vedere i suoi spettacoli?
Certo, li ho visti e li ho amati. Ho amato soprattutto quella piccola cosa che fece di Eduardo, con quel motoscafino.
La grande magia.
L’ho adorato. Per me era un genio.
Lei ha avuto anche un’esperienza importante da attrice, ma con Lucio Ardenzi.
E Giorgio non ci credeva, non voleva crederci. Sono stata attrice per caso, nel ’61. È stato proprio Ardenzi, che allora era mio marito, a parlarmi dell’Idiota di Achard: l’ho fatto e ho preso tutti i premi possibili e prendibili. Ma alla fine ho scelto la musica, perché solo la musica ha quel valore aggiunto che mi fa volare.
Eppure la sua voce è nata a teatro.
Sì, ma non vuole mica dire che ho una voce teatrale: sarebbe gravissimo. La musica non deve essere teatrale. Poi se faccio un pezzo di Gaber posso anche essere teatrale, ma una bella canzone d’amore la devo cantare con un altro calore.
Pensa a qualcuno in particolare quando le interpreta?
Se la canzone l’ho scritta io vuol dire che è dedicata a un uomo preciso, ma tutte le altre sono canzoni d’amore generiche. Come in Domani è un altro giorno, che è un capolavoro, quando canto: Dare, dare, dare ma sono sicura che tornerai qui da me. Non l’ho scritta io e quando la canto non penso a una persona specifica. Mi viene in mente ancora Strehler, quando si incazzava con i suoi attori e urlava: Non c’è bisogno di essere puttana per fare un ruolo di puttana.
Di cosa c’è bisogno?
Di talento, caro.
E che cos’è il talento?
È qualcosa che hai dentro, che sfugge agli altri, che non è comprensibile per nessuno, nemmeno per te, almeno finché non lo fai uscire, finché non lo metti in pratica.
Chi altri aveva talento quando ha iniziato a cantare?
In quegli anni eravamo in tre: io, Mina e Milva. E un po’ anche la Zanicchi, che aveva una bellissima voce.
Una canzone italiana tutta al femminile.
Non è una questione di genere, ma di chi canta bene e chi canta male. Allora c’erano più donne. Mi ricordo che a Falqui, per esempio, piaceva fare programmi con donne. Con lui ho fatto Fatti e fattacci insieme a Proietti: un capolavoro, uno degli spettacoli più belli della Rai.
Contava la bellezza?
Sì, ma contava soprattutto la presenza: io ho capito grazie a Strehler come si sta sul palcoscenico. Poi tra tutti i grandi artisti con cui ho lavorato ne ricordo qualcuno anche per la bellezza: George Benson per esempio. A modo suo anche Ron Carter, alto due metri con le mani lunghe sei. Ma quello che mi faceva più tenerezza era Gil Evans, perché non ci vedeva bene. Diceva sempre: The right note in the wrong place. E mi camminava dietro trotterellando perché gli piaceva il mio lato b.
Fra tutti chi aveva più talento?
Forse Herbie Hancock. Ma proprio non lo saprei dire, ne avrò conosciuti quaranta di quel livello.
Parliamo della sua città, di Milano: le piace come è diventata negli ultimi anni?
È una città che offre sempre di più: eventi, mostre, teatro. Ora ho visto questo progetto di farla riattraversare dal naviglio, ma ci vorranno ottomila anni, probabilmente non sarò più al mondo quando sarà finito».
Pensa che la città abbia perso qualcosa?
Direi che ha perso di umanità: la gente è più nevrotica di prima, deve fare tutto velocemente. Non è come a Roma, dove ho vissuto per undici anni: nei giorni in cui non facevo un tubo ero perfettamente a posto. A Milano invece bisogna uscire almeno a comperare il prosciutto per non sentirsi deficienti.
Però la ama lo stesso.
Alla fine sì, ci sono nata.
E Roma l’ha amata?
L’ho amata moltissimo. Era dopo il sessantotto e mentre gli altri facevano le barricate coi mobili degli altri, come diceva Flaiano, io mi divertivo come una pazza. Anche oggi ci vivrei. Ci sarà pure l’immondizia, ma se avessi un terrazzo e un affaccio per vedere tutta quella roba lì….
in apertura, Ornella Vanoni e Giorgio Strehler, foto di Luigi Ciminaghi