“Le Nozze di Figaro” di nuovo alla Scala nell’eterna ambientazione strehleriana. Sul podio questa volta il direttore colombiano che mette in scena uno spettacolo che conquista per freschezza e precisione filologica
Ancora! Alla Scala sono tornate Le nozze di Figaro – bene, benissimo, il problema non sono loro, che le potremmo sentire tutti i giorni a colazione e apericena. Sono tornate “Le Nozze di Strehler”, ovvero lo spettacolo con le scene di Ezio Frigerio e i costumi di Franca Squarciapino ch’è nato nel 1981 e da allora si è vestito da totem. Per quarant’anni è parso giusto conservare quella regia cesellata su Mozart come un modello non replicabile, un amore eterno del pubblico, e infatti non è rimasta in magazzino ma è tornata in scena nove volte (1982, 1987, 1989, 1997, 2002, 2006, 2008, 2012, 2021, unica pausa nel 2016, per la regia di Frederic Wake-Walker), dieci con questa.
Ancora! Il punto esclamativo sta per chi non-ne-può-più di riprendere uno spettacolo agée come il pubblico che lo adora, essendo nel migliore dei casi cresciuto, nel peggiore incanutito (o rinc) con lui. Il punto esclamativo sta anche per chi salta felice sulla sedia: per fortuna, ancora, non toglietecele più queste Nozze, che tanto di meglio non si può fare.
Chi ha (più) ragione? La risposta oscilla come un pendolo, ma, metafisiche a parte, il teatro è qui e ora. Così, per vedere se quest’opera del 1786 si trovi ancora bene in una regia pensata nel 1981, ripetiamo il test per la decima volta sfogliando random – scusate, a caso – le impressioni di queste Nozze.
Se uno spettacolo come quello di Strehler diventa una casa di esperienze, se non della vita, il primo pensiero deve andare a che cosa le diverse generazioni di interpreti vi hanno fatto vivere dentro. Oggi, anno 2023, la musica è nelle mani di Andrés Orozco-Estrada, colombiano di nascita, berlinese per scelta e residenza, nuovo direttore principale dell’Orchestra Nazionale della Rai. Orozco-Estrada ha 45 anni (età che in musica è considerata giovane), è un direttore sinfonico di qualità e lo si capisce dall’Ouverture, che lo mette in luce come un musicista anche “storicamente consapevole”, che ha metabolizzato i fraseggi angolosi, le dinamiche strette e il risalto delle voci interne, quelle che Mozart scriveva per far godere gli “esperti”, oltre ad accontentare il pubblico delle immediatezze. A Orozco-Estrada, le punteggiature secondarie piacciono molto e le asseconda. Al pubblico arrivano seguendo i giri che la buca e la sala del Piermarini governano come piace a loro, da sinistra a destra, da sotto in su. E questo piace a noi e a tutti: fa entrare nello spettacolo “vecchio” un piglio sinfonico in cui le lezioni della cosiddetta filologia (Harnoncourt, Hogwood, Gardiner, etc.) sono acquisite e sgorgano naturali. Il direttore si riconosce nella regia di Strehler e a suo modo l’aggiorna.
Orozco-Estrada ama l’orchestra, è chiaro. E che la tratti meglio delle voci, anche. La sua direzione è un tantino bipolare. Quel che si alza dalla buca (compreso un Continuo di fortepiano e violoncello suonato con piglio improvvisativo da Paolo Spadaro Munitto e Simone Groppo) è netto e deciso. Quel che si ascolta in scena non è sempre così “aggiornato”: nel cast si canta anche come piaceva al Festival di Salisburgo negli anni Cinquanta-Sessanta. La Contessa di Olga Bezsmertna è austera, densa, ma anche pesante e senza dizione. Il Cherubino di Svetlina Stoyanova, squillante ma di forza, condivide il difetto, la mancanza di parola italiana, il che fa soffrire non poco un personaggio simbolo dell’inquietudine, che gira frenetico tra cambi di ruolo e realtà capovolte. Voce schietta e incomprensibile è anche quella di Marcellina, Rachel Frenkel. E qui siamo al punto centrale delle Nozze 2023.
A parte quei tre ruoli, tutti gli altri sono da lode. Ildebrando d’Arcangelo canta con vocalità ben tornita un Conte fiero nelle sue illusioni di dominio e affranto nel suo destino di sconfitto (perfetto il “Tu non nascesti, audace!”, ch’è il Conte in sintesi). La Susanna di Benedetta Torre è deliziosa, brillante e sensuale, emozionante di voce e di gesto, la stella della compagnia. Luca Micheletti non manca nessuna sfumatura di Figaro: orgoglioso e sfrontato prima di assaggiare i dubbi sull’idea stessa di fedeltà, non solo sullo “scimunito mestiere di marito”; dialogante perfetto del Conte di D’Arcangelo. Di bella pronuncia sono anche il Don Bartolo di Andrea Concetti, il Basilio di Matteo Falcier (attore eccellente, non figurina isterica di contorno), la Barbarina di Mariya Taniguchi, l’Antonio di Lodovico Filippo Ravizza, perfino le due contadinelle Silvia Spruzzola e Romina Tomasoni.
Che cos’hanno in comune tutti i “buoni”? La dizione. Perché sono italiani? Non necessariamente, ci sono fratelli d’Italia che ne hanno di pessima. E qui torniamo al punto: chi ha la parola in bocca va meglio a tempo, è più espressivo, convince e trascina di più. É più attore, come voleva Strehler.
Le Nozze di questi giorni alla Scala sono una appropriazione stilistica e generazionale di uno spettacolo che finisce per conquistare “giovanilmente”. La musica di Mozart fatta propria da nuovi interpreti mette olio anche negli ingranaggi dello spettacolo. Che sia in costume (e quali costumi), che gli ambienti siano d’epoca (ma la prospettiva linearissima dell’Atto Terzo potrebbe andar bene anche a Robert Carsen, che tra poco farà vedere alla Scala il suo Peter Grimes di Britten), incide poco o nulla sul meccanismo perfetto che fa correre la “folle journée”, sui modi tutti maledettamente “giusti” per dare a Mozart spazi e gesti nel dispensare quello che aveva probabilmente imparato in una esistenza precedente: farci capire la vita meglio che nella vita.
Si esce dal teatro e si resta ancora una volta stupefatti (grazie a Strehler?). I versi delle Nozze di Figaro, con tante grazie a Beaumarchais, le aveva scritte un abate italiano che sfornava libretti psicologicamente “autentici” con una bottiglia di vino sul tavolo e una ragazzina sulle ginocchia (per poi finire a fare il droghiere in America e a scrivere memorie per lo più false). Sulle parole esperte di Lorenzo Da Ponte, Wolfgang Amadé aveva tradotto in musica la Vita e l’Amore in tutte le loro stagioni, dalla passione al tradimento, dall’onestà alla menzogna, dalla gioia al rimpianto, dall’entusiasmo alla rassegnazione. E aveva solo trent’anni. Si esce dalle Nozze (di Strehler?) e si ringrazia che Wolfgang non sia vissuto al tempo dell’antibiotico, che cura anche quello per cui probabilmente morì a trentacinque anni. Esclusi dal rischio di immaginare un Mozart carico di anni e forse poco o più nulla da dire. Senza una morte giovane, come Schubert, come Hendrix, come Marilyn, a renderlo eterno e intoccabile.
Foto: Brescia e Amisano@Teatro alla Scala