Cos’è la pazzia? Cos’è la depressione? E’ vero che alcuni sono malati ed altri no? In un lungo ed espressivo monologo basato sul romanzo di Bernhard, Orsini tratta questi temi con autenticità e pacata delicatezza.
Uno stile recitativo elegante, in quanto naturale e calmo, è quello adottato da Umberto Orsini ne Il nipote di Wittgenstein, con cui infatti l’attore ha vinto il premio Ubu nel 2001, quando debuttò con questa piéce.
Questa apparente naturalezza e spontaneità, frutto in realtà di una lunga e felice carriera, sono dovute al perfetto calarsi nella parte, Orsini stesso infatti afferma: «Qui non cerco di interpretare un personaggio, non “faccio Bernhard”, qui ho deciso di “essere Bernhard” e quindi più che fare un personaggio sono me stesso che parla con le parole di un autore grandissimo, che finirà comunque per prevaricarmi e quindi rappresentarsi».
Orsini impersona lo scrittore austriaco Bernhard ormai anziano che si cimenta in un lungo racconto-confessione rivolto al pubblico o alla solerte badante (Elisabetta Piccolomini) la quale continuamente entra ed esce di scena per aprire le finestre o accudire il protagonista, cui spesso rivolge occhiate espressive e recriminatorie per la mancanza di riguardo che egli ha verso la sua stessa salute.
Lo spettacolo è interamente ambientato nella stanza di Bernhard, da cui lo scrittore viennese narra la sua amicizia durata 12 anni con Paul Wittgestein, il nipote del famoso filosofo.
L’incontro tra i due avvenne in ospedale, poiché Bernhard era stato ricoverato nel padiglione dei malati di tubercolosi mentre Paul in quello per i malati psichici. La malattia mentale dell’amico diviene tematica concreta da cui partire per una riflessione sul tema. Lo scrittore afferma di temere gli psichiatri, perché ha visto con i suoi occhi ciò che han fatto all’amico ed è terrorizzato che possa capitare anche a lui, in quanto anch’egli sente di condividere la pazzia di Paul: «L’unica differenza tra Paul e me è che Paul si è lasciato completamente dominare dalla su pazzia… io invece no… per tutta la vita io ho sfruttato la mia pazzia l’ho dominata». E un po’ tutti forse, scavando nel profondo, potrebbero affermare qualcosa del genere.
La solitudine è un’altra tematica: il protagonista è infatti una sorta di misantropo, che mal sopporta il genere umano, fatta eccezione per Paul e la consorte. Il fastidio per la falsità delle persone e per i viennesi in generale è un elemento che accomuna lo scrittore al nipote di Wittgstein.
Un piacevole quadretto è quello dipinto da Bernhard quando racconta dell’affinità che aveva con l’amico pazzo – ma l’unico ad essere davvero sincero – quando ricorda ad esempio dei pomeriggi trascorsi ad osservare e accusare di nascosto la gente o le intere giornate passate insieme ad ascoltare musica classica senza scambiare nemmeno una parola.
La musica è un elemento costante nello spettacolo: dal violino utilizzato da Orsini per rinforzare, accompagnandole, alcune parole, al sottofondo di musica classica che si ode in alcune scene ma soprattutto per la grandissima passione per l’Opera che aveva Paul. Pur non essendo il personaggio presente sulla scena, allo spettatore pare quasi di conoscere Paul e di essercisi quasi affezionato, grazie alla narrazione emotivamente sentita, avvincente e massimamente credibile e realistica di Bernhard.
Tematiche sono anche la depressione (altra faccia della medaglia della solitudine e della pazzia) e la morte, quella di Paul e, in un futuro non troppo lontano, anche quella di Bernhard. Il motore stesso di quest’accorata dichiarazione di amicizia per Paul è infatti il senso di colpa che prova Bernhard per non essere andato al funerale dell’amico, cui aveva addirittura promesso un discorso funebre.
In scena al Piccolo Teatro Grassi dal 27 novembre al 22 dicembre, con la regia di Patrick Guinand, Il nipote di Wittgenstein è un testo che con delicatezza sottile tocca corde profondissime dell’animo umano e che Orsini, con le infinite modulazioni della sua voce, riesce a rendere al meglio.