Filippo Dini, regista e interprete, raduna un grande cast – capitanato da una Giuliana De Sio in stato di grazia – per l’adattamento italiano dell’opera cult di Tracy Letts
Contea di Osage, Oklahoma. Non siamo nell’Oklahoma delle grandi pianure di inizio ‘900 cantata sul palco da Rodgers e Hammerstein, ma assistiamo alle vicende di una midde/high-class borghese dell’attuale millennio, emblema della vita della provincia USA.
Tracy Letts ce lo racconta in un’opera teatrale piena di intuizioni psicologiche (devastanti!) che non solo ritrae gente comune ma, così facendo, mette uno specchio di fronte allo sguardo degli Stati Uniti di oggi, nudi in tutte le loro profonde contraddizioni, a partire dalla messa in discussione della gloriosa celebrazione/negazione del proprio spirito imperialistico.
Era il giugno del 2007 quando August: Osage County debuttava a Chicago allo Steppenwolf Theatre, mentre in Italia lo avremmo conosciuto solo sei anni dopo grazie alla trasposizione cinematografica che sui nostri schermi diventava I segreti di Osage County.
E sarebbe curioso sapere se il regista/attore Filippo Dini ne sia rimasto attratto grazie alle mirabili sequenze interpretate da Meryl Streep e Julia Roberts o grazie alla traduzione pubblicata da Rizzoli nel 2014 come Agosto, foto di famiglia, (progetto di messa in scena rimasto a lungo tra quelli ipotecati da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni per il Teatro dell’Elfo).
Certo che per riunire oggi sul palco tredici interpreti di ottimo livello era indispensabile l’impegno di un Teatro Stabile e forse Torino era il solo, per capacità produttive e linea poetica (come si diceva un tempo) a poterlo fare. Aveva ragione il New York Times quando definiva August Osage County come il nuovo spettacolo americano più eccitante che Broadway abbia visto da anni?
Indubbiamente si tratta per molti versi della vetta più alta della drammaturgia mainstream – quella di Broadway – intrinsecamente “politica” (nel senso più sfumato e più ampio che si possa attribuire negli USA al vocabolo “politica” in riferimento a una trama teatrale) e non a caso l’autore afferma di aver scritto un copione che è allegoria della vita sotto l’amministrazione Bush.
Alcolismo, tossicodipendenza, adulterio, cattiva condotta sessuale: l’elenco delle patologie che affliggono l’uno o l’altro della famiglia Weston è apparentemente infinito, e per certi versi stancamente noto. Tutto ha inizio con il lamento lirico del patriarca (docente universitario e poeta) che vuole assumere un’assistente di origine pellerossa per la moglie malata Mia moglie prende le pillole e io bevo! Questo è il patto che abbiamo raggiunto. In realtà sta progettando di sottrarsi alla vita (e/o alla famiglia?) ed è a causa del suo suicidio che la famiglia si ritrova riunita per la prima volta dopo molto tempo: la vedova, le tre figlie con i relativi mariti o compagni, figlie e consanguinei annessi.
Così in una immancabile cena d’interno si scatena l’inferno. Gli altari si scoprono e i veleni dilagano. Un precipitare senza paracadute. Il matriarcato infine dominante come unica via di riscatto. Il dominio maschile è morto? Il patriarca non c’è più e tutti gli uomini sopravvissuti si rivelano solo piccoli uomini, defilati e chiusi nell’egocentrismo?
La famiglia alle donne! La famiglia nelle mani delle donne! Non così suggerisce la scrittura di Letts che punta il dito anche contro il matriarcato come impossibile e inutile alternativa quando si fa specchio, specchio rovesciato, anch’esso POTERE, anch’esso forma di dominazione e repressione, con tutte le conseguenze derivanti.
Dunque Agosto a Osage County più che una commedia su una famiglia americana disfunzionale come già vista molte volte dai palcoscenici americani, si mostra consapevole delle tante famiglie americane disfunzionali che l’hanno storicamente preceduto, dal Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill a Il bambino sepolto di Sam Shepard per non citare l’iconico Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee (spettacolo recitato da Letts con successo come interprete a Broadway) o i vari testi di Tennessee Williams (la matriarca malata di Osage County non condivide forse il nome di Violet con la vampiresca M.rs Venable protagonista di Improvvisamente l’estate scorsa?).
Però tutte quelle famiglie che vengono qui sintetizzate ed esaltate al massimo grado sono ora ridicolizzate attraverso una scrittura satirica che spinge insieme i pedali del pianto e della risata. Soap comedy o tragica trascrizione dell’oggi? L’una e l’altra perfettamente equivalenti. Il divertente e l’amaro. Penna affilata e intelligente con battute memorabili che destabilizzano i momenti più inappropriati. Sicuramente lo sapevi quando hai iniziato a scopare con Pippi Calzelunghe che dovevi farti carico anche di un po’ di ipocrisia.
Non lo sai che non si dice più Cowboy e Indiani? Giocavate a Cowboy e Nativi Americani. In più la violenza verbale che fin dagli anni ’50 abbiamo imparato a vedere esplodere nei “classici”, nella scrittura 2.0 di Letts finisce per implodere.
Nei momenti di più accesa discussione, le parole, che dovrebbero avere la potenza di un’arma decisiva, vengono di colpo depauperate da un intimo sarcasmo che inesorabilmente le sgonfia e le sposta su un piano di sterile puntigliosità semantica o di “politicamente corretto” egualmente senza un autentico effetto lacerante. Delizioso paradosso: sparare a salve e colpire nel segno proprio perché si è consapevoli che solo un’arma senza proiettile può essere letale.
Di certo è proprio grazie a caratteristiche di tal genere che la scrittura di Agosto a Osage County si è guadagnata sia il Premio Pulitzer per la drammaturgia che il Tony Award 2008 alla migliore opera teatrale. Lo stile di recitazione previsto per gli attori è totalmente naturalistico… li si può immaginare con tanto di spalle al pubblico. Nulla è “messo in scena” e tutto deve essere reale, talora fin “troppo reale”.
Un vero “paradiso” per gli interpreti cui viene concesso uno spartito assolutamente raro, scritto da un attore che evidentemente scrive per attori. Con personaggi esagerati nella loro assoluta normalità da recitare con normale esagerazione. Prima fra tutte la matriarca Violet, figura bipolare affetta da cancro alla bocca (e come non cogliere un’ulteriore precisa metafora anche in questa patologia?) che ingurgita psicofarmaci e vomita veleni.
Dio Crono in gonnella, grazie a una lingua più affilata di un rasoio, divora lentamente e con gusto tutte le creature che ha generato, e con loro anche chi sta lì intorno. Spudoratamente e in modo esplicito, uno per uno, fino a che tutti, davvero tutti, non siano stati annullati, macellati. Vendetta sterile di un essere impotente per le miserie della propria esistenza, forte di un sesto senso per scovare e sfruttare i punti dolenti e le ferite segrete di chiunque ha intorno; con una fame di riscatto appagata solo nell’appoggiarsi alle miserie di tutti gli altri. Con risultati tanto strazianti quanto esilaranti.
Per un ruolo del genere si conoscono attrici che venderebbero casa, marito, figli e cagnetto allegato, ma a Giuliana De Sio non necessitano tali sacrifici. Sembra esserle sufficiente imbacuccarsi sotto un’improbabile parrucca bionda per trasformarsi con naturalezza nella malefica Gorgone tagliateste e porsi subito in lizza per i maggiori premi della stagione teatrale italiana. La sua Mrs. Dunagan è semplicemente magnifica, sia quando si mostra intontita e assente, sia quando si guarda attorno in cerca di nuove prede, minacciosa perfino nell’incedere passo incerto dopo passo incerto da un lato all’altro del palco.
A farle da principale contraltare ha di fronte Manuela Mandracchia che recita il ruolo della primogenita Barbara, unica a tenerle testa in formidabili “duetti” come nella cena di apertura secondo atto o nel memorabile scontro finale. Ma all’intorno l’intero cast è composto con quanto di meglio offre il vivaio attoriale dell’oggi italiano e va dato merito a Filippo Dini (sul palco sia da interprete che da regista) di aver operato un’eccellente operazione di casting. Ogni attore è curato con partecipe attenzione e ogni figura è scolpita a tre dimensioni per intonazioni, posture e scavi psicologici, ma una nota in più è da riconoscere a Orletta Notari come anziana zia/madre illegittima, in quanto riesce a infondere al grottesco della caratterizzazione del suo personaggio lo scarto di un realismo carnoso ironicamente mediterraneo.
Le tre ore e mezza dello spettacolo volano via senza alcun senso di lunghezza grazie a una regia che tiene conto delle differenti valenze del testo, consapevole dell’umanità dei Cechov, degli abbagli degli Ibsen, degli odi di Strindberg, degli eccessi degli Williams piacevolmente replicati e del differente contesto (“USA vs. Italia”) in cui viene recitato. Dini firma qui il suo lavoro forse più ambizioso e più rivelatore del suo intendere il teatro (ancora una volta in debito verso il grande schermo), più ancora del recente Crogiuolo.
E se si ricerca una conferma di ciò, basta notare l’uso che Dini fa della magnifica ambientazione scenica, firmata da Gregorio Zurla, e concepita come un grande ambiente grigio, articolato su due piani e con pareti mosse a vista dagli attori, prima labirinto di storie, segreti ed emozioni represse, poi prigione/trappola dell’istituzione familiare e infine reparto manicomiale di una Terra Desolata.
Così alla fine del dramma (o si è assistito a una farsa?) si resta nel dubbio se anche questa volta la celebre affermazione di Tolstoj che “Tutte le famiglie felicisono uguali, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” non ci dice che mentre i drammi familiari europei contemporanei (alla Il dio del massacro) scavano nell’animo politico dell’individuo e del teatro, la drammaturgia americana sta ancora proponendo i Lessici Famigliari come un’irrisolta dilatazione postuma della “loro” Guerra Civile.
foto © Luigi De Palma