Dopo le 14 nomination del favorito “La La Land”, nella corsa alle statuette spiccano tante candidature per i film sui neri realizzati da registi e interpretati da attori di colore: corre per 8 oscar “Moonlight” di Barry Jenkins (già Golden Globe al miglior film), per quattro “Barriere” di Denzel Washington con Viola Davis, per due “Il diritto di contare” con tre ottime attrici black. E tra i documentari, dove gareggia anche “Fuocoammare” di Rosi, gli altri candidati sono tutti in qualche modo legati al mondo dei neri: compreso “Life animated”, diretto da Roger Ross Williams, l’unico già uscito nella sale italiane
L’Oscar 2017 sarà l’ultima battaglia della Hollywood democratica e liberal o il primo momento di quella che l’irriducibile Boss Bruce Springsteen ha definito la nascente resistenza all’America di Donald Trump? Comunque sia, è innegabile che già fin dalla cerimonia dei Golden Globe – che pochi giorni prima dell’insediamento del 45° presidente Usa hanno premiato come miglior film Moonlight di Barry Jenkins, storia di un ragazzo nero di Miami e miglior attrice non protagonista Viola Davis, star di colore di Barriere di Denzel Washington – il durissimo speech contro il vincitore delle elezioni di Meryl Streep, Globe 2017 alla carriera e nominata all’Oscar per la 20ma volta (record ineguagliabile) per Florence, ha chiarito che l’industria del cinema, e soprattutto la maggioranza della comunità di attori e tecnici che la popolano si stava schierando apertamente contro il nuovo corso. Cosa poi ampiamente confermata dai voti espressi per le nomination.
Del resto tutto questo era già risultato chiaro dal gran numero di star attive nella campagna elettorale di Hillary Clinton, o comunque intervenute a sostenerla, e dall’assai difficile, quasi imbarazzante ricerca di cantanti top o star dello schermo disponibili a partecipare alla cerimonia dell’insediamento del nuovo, determinatissimo inquilino della Casa Bianca. Anche se inevitabilmente gli studios e i tycoon dovranno in qualche modo convivere con lui in questi 4 anni.
Certo, tre giorni dopo il Trump-day, le nomination all’Oscar 2017 (vincitori e notte delle stelle, per gli affezionati fan, il 26 febbraio), hanno mostrato nuovamente il cuore obamiano di Hollywood, riservando otto candidature, al secondo posto solo dopo lo scintillante La La Land (14 candidature, altro record, stavolta ex.aequo con Eva contro Eva e Titanic), a Moonlight, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura, entrambe del nero Barry Jenkins, e due protagonisti, Naomie Harris e Mahershala Ali. Quattro candidature sono andate poi alla storia tutta all-black Barriere, in lizza come miglior film e sceneggiatura (di August Wilson), e per due protagonisti, Denzel Washington e Viola Davis, altre due, ma di peso, miglior film e attrice (Olivia Spencer) a Il diritto di contare, storia di tre cervellone della Nasa, misconosciute perché nere e donne (è storia), che contribuirono all’inizio degli anni 60 a mandare nello spazio il primo astronauta Usa.
Ma è nella competizione per la statuetta al miglior documentario, dove concorre, e forse con qualche chanche di vittoria, anche Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che si schiera la più forte pattuglia di film d’impegno e di documentazione sociale, in particolare sulla vita dei neri d’America, con ben tre titoli su cinque. Il 42enne colored bostoniano Ezra Edelman firma O.J: Made in America, quasi otto ore di miniserie cinematografica in cinque parti sulla controversa vicenda di O. J. Simpson, acclamato campione di football americano accusato di un duplice omicidio ma incarcerato molti anni dopo per un altro reato, in cui assommano due topics della narrazione, la razza e la fama; il 53enne haitiano Raoul Peck in I Am Not Your Negro, documentario con la voce narrante di Samuel L, Jackson, basato sul libro incompiuto di James Baldwin Remember This House, compone una sorta di storia dell’America vista attraverso il tema della razza nera; infine la 44enne Ava DuVernay, già autrice di Selma (nominato all’Oscar come miglior film nel 2015, primo caso per una regista afro-americana), con 13th affronta di petto l’attualità anche nei suoi lati più spinosi, documentando come la schiavitù, bandita negli Usa già dall’800 grazie al 13mo emendamento (da cui il titolo del film) della costituzione, sia in realtà in qualche modo presente nel suo paese per la forte propensione del sistema punitivo giudiziario a incarcerare i neri, che sono il 13,5 % della popolazione ma oltre il 40% dei detenuti complessivi (1 milione, su 2,4 milioni).
A completare lo schieramento dei documentari da Oscar c’è Life, Animated di Roger Ross Williams, 43enne regista anche lui nero, già vincitore dell’Oscar nel 2010 con il medio metraggio Music By Prudence, che racconta qui la storia di un ragazzino bianco, Owen, che manifesta sintomi di autismo grave già all’età di tre anni. Saranno i grandi personaggi creati dalla Walt Disney, da Peter Pan a Mowgli, da Topolino al pennuto Zazu del Re Leone, a creare un tramite tra lui e l’impenetrabile mondo esterno, attraverso il suo ossessivo ma originale (e prezioso) modo di interpretare con la sua voce quei “characters”, ripetendo frasi dei film che sempre però si adattano alla reali situazioni della vita che si trova ad affrontare. Un modo eccezionale di comunicare che dimostra comunque, e il film lo illustra con grande efficacia, la sua capacità di capire le situazioni e reagire con una logica indiscutibile, servendosi di questo singolare sistema. E finendo, una volta diventato adulto, per trovare un’istruzione e un posto, sia pure in una comunità protetta, nel mondo normale. Tratto dal best-seller del premio Pulitzer Ron Suskind Life Animated: a story of sidekicks, heroes, and autism, già premiato al Sundance Festival 2016, il film è in questi giorni anche nelle sale italiane.
Insomma, se non è certo che finirà come nel 2013 con i tre oscar a 12 anni schiavo (dalla co-protagonista Lupita Nyong’o allo sceneggiatore John Ridely, entrambi neri), perché La La Land quest’anno minaccia di farla davvero da padrone, è comunque evidente che il popolo del cinema, della musica, e dello show-business in generale, comprese le sue propaggini informatiche, si candida a “opposizione culturale” al trumpismo al potere. E siccome negli States poche cose influenzano l’inconscio collettivo come l’industria dei suoni e delle immagini, la cosa non sarà ininfluente sul modo di vedere e di sentire dei Born in the Usa.