In bilico e in alternanza tra documentario e fiction, Michele Pennetta racconta in “Il mio corpo” due vite parallele di ragazzi alle prese con la durezza del lavoro e della vita in una Sicilia riarsa: il nigeriano Stanley, migrante che cerca la “sua” Italia e Oscar, ragazzo schiavizzato dal padre-padrone, che sogna una fuga forse impossibile. Premiato alla Festa di Roma, il film è in corsa per il Nastro d’Argento
Ha osservato giustamente Peter Bradshaw su The Guardian (il film è uscito a Londra a dicembre, e non è l’unica apparizione internazionale, ai festival e in sala, con molti elogi, dopo il premio all’ultima Festa di Roma) che ci sono almeno due spiegazioni, e abbastanza opposte, del titolo che il 37enne regista varesino Michele Pennetta, da qualche tempo trapiantato in Svizzera, ha voluto dare a Il mio corpo, il suo secondo film, ambientato come il primo (Pescatori di corpi, 2016, che raccontava di pescatori catanesi e immigrati, tra naufragi e malavita) nella Sicilia degli ultimi, in senso materiale ed esistenziale. La prima spiegazione può riferirsi alla frase della messa cattolica in cui l’officiante, per un momento “interprete” di Gesù Cristo, dice: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”. Uno dei due protagonisti del film, Stanley, ragazzo nigeriano in fuga da miseria e violenze che hanno toccato anche la sua famiglia, ha affrontato il mare più pericoloso del mondo per cercare un futuro migliore in Italia, e ora lavora in chiesa, tra pulizie a magazzino, al servizio di un prete che ogni tanto gli fa il “regalo” (almeno pagato) di mandarlo in campagna a raccogliere l’uva o badare alle pecore di suoi conoscenti. Un senso religioso, quindi, che rimanda anche alla metafora del sacrificio di sé, tema che accomuna il giovane nero all’altro protagonista, Oscar, ragazzino rimasto senza madre (se n’è andata da tempo) ma al servizio di uno spietato padre-padrone, rigattiere d’infima specie, che lo schiavizza portandolo col fratello Roberto, sul furgone-azienda, a raccogliere metalli nelle discariche abusive a cielo aperto sparse per le campagne. Li rivenderanno poi, a peso (non d’oro).
L’altro riferimento, opposto, potremmo dire quasi marxiano, è al corpo come unica fonte di sopravvivenza, sola risorsa che entrambi, possono vendere, alla famiglia o alla società, per ottenere in cambio di che vivere: le loro braccia, la resistenza alle fatiche, in una formula la forza lavoro. Materiale, nel loro caso, nel senso più stretto del termine. Quello di Oscar, soprattutto alla sua età, è un lavoro estenuante, e in più Roberto, che è un poco più grandicello, fa comunella con papà nel rendergli la vita ancor più solitaria e insopportabile, se fosse possibile. Non c’è una via di fuga, nulla o quasi può liberarlo da questa esistenza faticosa, infelice. Da questa terra riarsa, disperata, abbandonata. Fotografata con un nitore ammirevole da Paolo Ferrari. Per Stanley il peggio è forse alle spalle: ha un piccolo appartamento, che non si può permettere (gli ripete l’amico con cui lo divide), e un permesso di soggiorno di due anni e potrebbe lasciare l’isola, cercare di meglio altrove, ma qualcosa lo trattiene in quel limbo.
Tra detriti, ferraglia, case abbandonate, Oscar e Stanley, che finora si sono visti solo in sequenze distinte, montate con ritmo alternato, in una doppia progressione che racconta le loro vite, si incontreranno per caso in un breve momento nel finale del film in cui il giovanotto nero avrà modo di mostrare la sua generosità. Usando le parole del regista, “con questo nuovo film ho voluto raccontare la precarietà di giovani senza futuro e senza prospettive. Vittime di scelte fatte tutte da altri. In Stanley e Oscar c’era qualcosa che li accomunava; lo stesso sentimento di essere stati gettati in pasto al mondo senza preavviso, usando i propri corpi come unico strumento di sopravvivenza”.
Il mio corpo è candidato ai Nastri d’Argento 2021, nella sezione Cinema del reale: la concorrenza appare quasi insuperabile (Salvatores, Segre, Infascelli e vari altri) ma in gara potrà portare uno stile personale, un modo di coniugare la vita nella sua più cruda e diretta modalità di mostrarsi e il racconto della realtà costruito ma non artificioso. Non voglio esagerare, ma come il padre di tutti i documentaristi, Robert Flaherty, e più di recente Gianfranco Rosi, Pennetta conduce i suoi “attori” a interpretare se stessi, alterna sequenze di vita vera e altre scritte per il film, ma è difficile distinguere le une dalle altre, non c’è vero scatto né scarto, e questo è certamente un pregio. Il film torna alla più semplici, fondamentali verità, raccontando di persone le cui esistenze, dimenticate e marginali, cariche di sofferenza e significato, decisamente debordano dalla dimensione dello schermo e del film. Si fanno vita vera. Coproduzione italo-svizzera, il film è visibile sulle piattaforme #iorestoinSALA, CG Digital, e dal 18 marzo CHILI.
Il mio corpo, di Michele Pennetta con Stanley Abhulimen, Blessed Idahosa, Oscar, Roberto e Marco Prestifilippo