Tratto dal romanzo di Cain – che ispirò Visconti, Ivo van Hove dirige una compagnia di attori straordinari, uno spettacolo tecnicamente ineccepibile, ma a cui manca forse l’urgenza espressiva dell’originale. Jude Law bravissimo, ma forse troppo sofisticato per la parte di Gino
Ivo van Hove, tra i più interessanti registi in circolazione, è assai noto per le sue ristrutturazioni di vecchi film, con coraggiose transizioni dalle due alle tre dimensioni: dal non luogo dello schermo alla concretezza live di un palcoscenico. E la sua ultima meta(media)morfosi è ancora dedicata a Luchino Visconti, che del resto ha passato una vita intera tra le intersezioni e le penombre di cinema e teatro, senza mai poter né voler scegliere.
Dopo gli adattamenti di van Hove di Rocco e i suoi fratelli, storia di migranti di ieri che sanno parlare delle integrazioni di oggi, dei decadentismi politici e artistici de La caduta degli dei e Ludwig, stavolta è toccato al primo film di Visconti: Ossessione, sorgente inesauribile dal 1943 di ogni neorealismo futuro, tratto dal romanzo di James Cain, Il postino suona sempre due volte – non accreditato nel film – in anticipo di tre anni sulla versione americana con Lana Turner e John Garfield.
In Italia Ossessione si reggeva sui labirinti di passioni tra Clara Calamai e Massimo Girotti: lei conturbante oggetto del desiderio già da La cena delle beffe di Alessandro Blasetti, con uno dei primi seni nudi del cinema italiano, lui divo in canottiera quasi dieci anni prima di Brando-Kowalski. Adulterio con conseguente omicidio, poi morte accidentale alle soglie di una vita nuova, che blocca la fuga esistenziale dei due amanti tra le strade di provincia tra l’Emilia e l’Adriatico.
Un canto primordiale di amore e morte, che van Hove ha voluto rendere universale sul palcoscenico del Barbican Centre di Londra – fino al 20 maggio -, togliendo i riferimenti all’Italia come contesto sociale e culturale, fatta eccezione per qualche misura di Verdi. Obsession diventa così uno studio sugli invarianti dell’istinto che tendono al tragico, con i personaggi che smettono di occuparsi di ciò che è bene e male per gettarsi nel ring delle passioni fino alla dissoluzione.
Divo tra i divi in scena, due volte candidato all’Oscar, già apprezzato attore scespiriano – pochi anni fa Henry V al Noel Coward Theatre –, di ritorno dall’eccentrica santità di cui l’ha investito Paolo Sorrentino in The Young Pope, Jude Law recita la parte di Gino Costa. Senz’altro magnifica presenza in scena, ma discreta, dal tono sempre sofisticato: fin troppo per una parte sensuale come questa. E nonostante le frequenti allusioni sessuali, amplificate da maxi proiezioni tutte intorno alla scena, i momenti più significativi tra i due amanti sono proprio quelli in cui Law si sdraia sul palco, immobile come un manichino, con la magnifica Halina Reijn che cerca di riaccendergli il desiderio.
Compagnia di attori straordinari, spettacolo tecnicamente ineccepibile, ma a cui manca forse l’urgenza espressiva dell’originale. Nella splendida scena unica di Jan Versweyveld, con un motore sospeso al centro come un totem, che diventa fonte di ogni violenza rigurgitando un olio nerastro, la vicenda riprende forma soltanto nei contorni, mossa dal regista con sguardo freddo e distante, senza una direzione precisa politica, psicologica o simbolica. Eppure sono tanti i dettagli preziosi sparsi nello spettacolo: basta una manica che scivola lungo un braccio mentre gli attori si stringono e subito il pubblico viene catturato tra le maglie di un’intimità altrui, su cui forse van Hove avrebbe potuto lavorare di più.
Obsession, al Barbican Centre di Londra fino al 20 maggio