Va in scena «Ritorno a Reims», la nuova produzione del Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Thomas Ostermeier
Ritorno a Reims, presentato ieri sera al Piccolo da Thomas Ostermeier – direttore della Schaubühne di Berlino alla sua prima produzione italiana –, è un viaggio nella memoria personale e pubblica del sociologo francese Didier Eribon che non lascia scampo.
Tutto ha inizio da un suo saggio-confessione del 2009, dove in poco più di duecento pagine edite da Bompiani, Eribon passa dall’autoanalisi a un’indagine della sfera sociale del suo paese.
Percorso che il regista tedesco sfrutta per una messinscena brechtiana divenuta negli ultimi anni transnazionale (tre diverse produzioni: in inglese, in tedesco e in francese), e che esamina le ragioni profonde del successo delle destre e degli estremismi in Occidente: dallo scollamento tra sinistra e popolo, al fallimento di ogni pensiero e morale di fronte alla logica della pancia (sempre santo Brecht).
A un certo punto per Eribon è stato chiaro che il nodo inestricabile della sua vita non era l’omosessualità, accettata seppur con fatica fin dall’adolescenza in provincia, prima della meritata liberazione urbano-parigina. Il problema era l’origine proletaria.
Per lui, raffinato intellettuale fedelissimo di Foucault e Bourdieu, la vergogna sociale ha pesato più della vergogna sessuale, più dell’omofobia che il lessico famigliare gli ha sempre riservato, tanto da separarlo da genitori e fratelli fino alla morte del padre, scusa per un viaggio a Reims non rossiniano alla ricerca dei suoi geni operai rimossi.
La sua tesi è che ognuno resta per sempre inchiodato al proprio passato di classe: perché la divisione in classi non esiste soltanto per un certo tipo di borghesia, talmente autocentrata da non accorgersi delle difficoltà della donna di servizio che vedono tutti i giorni.
Per tutti gli altri resta inscritta nell’inconscio tanto quanto l’Edipo freudiano. Anzi di più. Per Eribon l’elaborazione di un lutto diventa occasione per un coming out sociale, per parlare della crisi della sinistra, che ormai ha assunto il linguaggio di chi governa e ha abbandonato quello di chi è governato.
Ma anche della fine del binomio operai-partito comunista, della scomparsa del voto di appartenenza “per riconoscimento naturale”, sostituito da derive di natura opposta: la destra più pericolosa, il razzismo, il Front National, Le Pen padre e figlia.
Grazie alle capacità profetiche di Eribon, è facile per Ostermeier estendere il discorso. Lo fa con il contributo non solo artistico, ma anche personale dei tre attori in scena: Sonia Bergamasco, Rosario Lisma e Tommy Kuti.
L’adattamento del saggio-memoir è pensato su tre livelli: uno studio di registrazione in cui la Bergamasco legge il testo di Eribon, che va a sovrapporsi alle immagini del documentario che ne ha tratto il regista Lisma, aiutato dal tecnico del suono Kuti (nel video si vede anche Eribon in persona che guarda vecchie foto di famiglia con la madre), salvo poi continuare a interrompersi per discutere di alcune associazioni e tagli ed entrare così nel vivo del dibattito attuale.
Ritorno a Reims è un esempio di teatro politico a porte chiuse: la drammatizzazione claustrofobica comprende due sessioni di registrazione, arricchite dagli screzi tra attrice e regista che si interrogano su come trasmettere al meglio il messaggio di Eribon.
Un messaggio più attuale che mai, che necessita di qualche aggiornamento tratto dalle esperienze degli attori, impegnati a chiedersi, da cittadini prima ancora che da artisti, cosa si possa fare in questo momento storico. Così il discorso si sposta su complotti e complottismi, su istruzione e fake news, sui monopoli inevitabili, che potrebbero persino far ricredere la sinistra su alcuni punti fissi: «Berlusconi non è cattivo», dice a fatica Lisma, come Fonzie che non riesce a pronunciare le parole «Ho sbagliato».
In alcuni passaggi lo spettacolo passa dal didascalico alla Brecht al didattico vero e proprio. Solo che a volte tende troppo al retorico: nelle parti più specificamente italiane vengono spesso fuori le solite cose, persino un accostamento Renzi-Berlusconi nel video, che fa molto (troppo) chiacchiera da bar.
Ma Ostermeier ha l’abilità di lasciare nel pubblico qualche speranza anche senza proporre soluzioni. Lo aiutano la voix humaine di Sonia Bergamasco, il simpatico arrovellamento di Rosario Lisma e il rap buono (un po’ a rischio di buonismo) di Tommy Kuti, guidati dal testo di Eribon, che ricorda a tutti noi schiavi degli psicologismi che il privato non è altro che una produzione del pubblico.
Insomma quello che conta è il dibattito argomentato, la capacità di ritornare sulle proprie posizioni, lo sforzo di continuare mettersi in gioco criticamente. “Non siamo a teatro” si dice a un certo punto, e sembra un richiamo al pubblico, un invito a contribuire.
Immagine di copertina © Masiar Pasquali