Un Otello iagocentrico, quello in scena all’Elfo, diretto e interpretato da Elio de Capitani con Camilla Semino Favro: la scena, però, la ruba Federico Vanni nei panni dell’infido per eccellenza…
Vedere uno Iago con una faccia onesta è sempre perturbante perché, per quanto questo personaggio possa essere stato “indossato” dalle fisicità più diverse, è troppo forte la tentazione di immaginarselo come un essere serpentesco, esangue, rosicchiato dall’invidia. Inoltre vedere sul palco uno Iago lombrosiano, tipicamente “iaghesco”, accresce la suspense data dal fatto che il puro Otello non ne sa decifrare – al contrario di noi – i segni esteriori, come se avesse sempre sotto gli occhi una bomba camuffata a malapena e non sapesse distinguerla.
Invece nel caso dello Iago interpretato dal pacioso Federico Vanni, nella versione dell’Otello proposta dal Teatro dell’Elfo, fatichiamo non poco a riconoscerlo come il mostro che lui stesso ci dice continuamente di essere; proprio per questo è davvero agghiacciante osservare Desdemona (Camilla Semino Favro) che, in preda allo sconforto, si abbandona sul suo possente torace consolatore, quasi paterno, cercando rifugio dall’ingiustizia che si sta accanendo contro di lei… ignara del fatto che la radice di quell’ingiustizia si trovi proprio in quello stesso torace.
La prima delle due parti in cui è diviso l’Otello dell’Elfo è decisamente “iagocentrica”, consacrata alla crudeltà psicologica e all’accumulo delle parole compromettenti: Iago annoda il cappio e Desdemona ci mette dentro la testa. Il demoniaco inganno perpetrato ai danni di Otello e della consorte è portato sulla scena in modo fine, con la complicità della concreta traduzione di Ferdinando Bruni, piena di sottolineature beffarde.
Federico Vanni è bravissimo nel dare uno sviluppo morbido alla sua malevola arringa volta a inguaiare la povera Desdemona: sulle prime è reticente, come un libro semichiuso che inviti passivamente lo sguardo del lettore, ma subito dopo diventa un accusatore aggressivo e sfacciato. Gioca con la capacità di sopportazione di Otello in maniera talmente spregiudicata da rasentare l’incoscienza e la fine della prima parte dello spettacolo è sapientemente collocata al punto di non ritorno, quando Otello – interpretato in modo pulito da Elio De Capitani – è ormai in caduta libera.
La seconda parte appare un po’ stanca rispetto ai suoi presupposti apocalittici: il precipitare degli eventi è restituito in modo meno affascinante della sua lunga preparazione (in particolare l’agguato notturno a Cassio risulta abbastanza blando, tanto che viene da pensare che lo si potrebbe semplicemente suggerire nel buio totale); verso il centosessantesimo minuto viene quindi spontaneo lanciare un’occhiata di fuoco alla moritura Desdemona quando costei chiede una proroga di mezz’ora prima di essere strangolata.
Il finale riempie comunque lo spettatore di un senso di tragica completezza e Iago per la prima volta rimane a corto di parole, deluso dall’incapacità di controllare gli esiti della propria macchinazione; i corpi delle sue vittime compongono un bel monumento funebre incorniciato dalla reattiva scenografia di Carlo Sala, tutta fatta di drappeggi volanti che catturano lo sguardo dello spettatore e che restituiscono, col loro incresparsi e distendersi, le emozioni che aleggiano.
Ma rispetto alle emozioni manifeste contano di più quelle taciute o addirittura assenti. Il traguardo più evidente di questo Otello è lo Iago di Vanni: insospettabile, capace di decodificare i sentimenti altrui ma non di provarli su di sé, vissuto eppure privo d’anima, svuotato dal tarlo della frustrazione.
Video e foto di proprietà del teatro dell’Elfo