Un esempio luminoso di cosa sia buon teatro: il nuovo spettacolo diretto da Serena Sinigaglia, tratto dall’opera di Rayhana, con le bravissime Serli e Serini
Ci sono cose che le donne devono ancora fare a bassa voce. Parlare del proprio corpo, ad esempio, che «dice molto di colei che lo abita». Se si è in un hamman di Algeri, anche accendersi una sigaretta. La significatività di aver portato – nella seconda stagione on the road di ATIR – sul palcoscenico del Teatro Carcano Alla mia età mi nascondo ancora per fumare, dell’algerina Rayhana, costretta allo pseudonimo da una violenza aggressione per le strade di Parigi, si vede già da qui. In questa tragicommedia corale le donne tra i fumi del vapore che le avvolge parlano, invece, schiette e senza timore. Di sessualità, di desiderio, di vita quotidiana, di soprusi, di sè e di uomini.
E di fede, inevitabilmente. Perché è ineludibile, l’ambientazione è un paese musulmano, e fuori dall’hamman retto dalla granitica Fatima di Marcela Serli e dalla sua goffa assistente Samia, una divertente Irene Serini, che nei suoi ventinove anni è ormai prossima alla condanna senza appello della solitudine a vita e non aspetta altro che un marito purchessia, ci sono un gruppo di uomini che vogliono morta la sorella di uno di loro, incinta fuori dal matrimonio, che proprio nell’hamman ha trovato rifugio.
Nel pulsare – a tratti indiavolato, a tratti riflessivo – di scontri riavvicinamenti c’è la problematizzazione di un islam raccontato in tutte le sue sfumature, dalla madre pia votata alla tradizione alla giovane emancipata, con una carriera avviata e un matrimonio d’amore, dalla vedova di un terrorista imbozzolata nella sua fede fervente alla donna che il rifiuto di quei dogmi lo ha pagato con il proprio stesso corpo.
Nessuna di loro è però soltanto questo. Merito cardine di questo testo e della sua autrice è aver tratteggiato non otto figure, ma otto esistenze che problematizzano anche aspetti scomodi: quanto incide la disperazione sul radicalismo, quanto l’insicurezza sulla indisponibilità al dialogo? Otto parabole che le interpretazioni sanno rendere tridimensionali, grazie ad una accorta caratterizzazione che permette anche ad Annagaia Marchioro, Carla Manzon Chiara Stoppa, Matilde Facheris, Giorgia Senesi e Sandra Zoncolan di dare a queste donne colori personali e convincenti.
Impossibile uscire dal teatro illudendosi di aver gettato – soltanto – uno sguardo a una cultura altra da sé sempre più spesso preda di giudizi, quelli sì, tagliati con l’accetta e non a caso la scelta di non limitare l’azione al palcoscenico è simbolicamente immediata.
Questo testo sceglie un simbolo chiaramente identificabile per rifiutarne le decodifiche facili, e le facili soluzioni. Sotto i veli e i teli bianchi della scena disegnata da Maria Spazzi, e resa viva dall’intelligente e visivamente suggestiva regia di Serena Sinigaglia, in cui le luci di Roberta Faiolo contribuiscono ad attribuire momenti di centralità a ciascuna delle esistenze in scena, non c’è presa di posizione ideologica. Ci sono delle donne. Non ci sono i jihadisti, c’è il fondamentalismo, parente stretto del maschilismo, che delle donne fa sempre vittime sacrificali, in ogni tempo e ad ogni latitudine, almeno fino a che non si ricordano di poter essere insieme, anche se questo non necessariamente basta a salvarle.
Molto al di sopra delle letture parziali e fuori da ogni retorica di genere, ad andare in scena è un affresco sulla forza delle donne quando si fa pratica, capace di resistere agli assalti che vengono da fuori ma anche allo scontro l’una con l’altra e persino con se stesse.
Una pratica che racconta molto al presente, non solo politico ma anche teatrale: mettere otto donne (più una regista) insieme su un palcoscenico di blasone è, oggi, in Italia, impresa non da poco, e sarebbe opportuno interrogarsi sui motivi.
Non da meno aver dimostrato che si può parlare in modo autenticamente criticizzante di argomenti dirimenti e calati in contesti problematici senza rinunciare a un linguaggio fresco, vivido e diretto senza che questo significhi banalizzazione, senza che la risata e il pensiero complesso si trovino mai in contrasto l’una con l’altro e senza spingere sull’emotività facile e a poco prezzo.
Tutti motivi, verosimilmente non esaustivi, che fanno di questo lavoro uno spettacolo necessario, di impatto emotivo ed intellettuale: un esempio luminoso di cosa può essere (quando è fatto dalle donne, ma non solo) il buon teatro.