Un Luigi Lo Cascio incantatore si fa portavoce, in un omaggio tutto con le sue parole, di Pier Paolo Pasolini
Un prato in pendio, quanto ci vuole
per correre la discesa senza paura
di cadere, ma quasi andando incontro alla caduta
con il batticuore del volo
Potrebbe stupire che per raccontare un poeta ne venga in mente un altro. Questo, è Pierluigi Cappello, che con il primo condivide le origini friulane. Le altre attinenze sono forse per chi li conosca meglio, ma è difficile non seguire l’evocazione del suo “prato in pendio” quando si osserva la scenografia con cui Marco Tullio Giordana ha scelto di raccontare Pier Paolo Pasolini, poeta, prima di ogni altra definizione. Così lo racconta e così ha scelto di evocarlo,“Pa’”, nel corpo e nella voce di Luigi Lo Cascio, in scena all’Elfo Puccini.
Solo attraverso le sue parole e i suoi versi. Ed è una scelta decisamente significativa in un momento – a cent’anni esatti dalla nascita del poeta di Casarsa – ci si riempie senza posa la bocca. Ma quanti possono dire senza mentire di averlo letto, fatti salvi i romanzi, spesso in economica? Chi ne riconosce – tolto qualche caposaldo spesso in forma di ritratto – l’eleganza dei versi, e la raffinatezza esatta della scelta delle parole, tra la poesia e la lettera privata?
Uno sguardo che dalla prossimità della sala e dalla distanza del tempo ci osserva e poi ci immerge in un dialogo – nel corpo di un giovane ragazzo – in un dialogo con fantasmi di altri corpi. Il fratello Guido e la sua perduta innocenza, ”morto su un prato”, ucciso partigiano a vent’anni dal fuoco amico in nome di una libertà sognata. E poi i ragazzi, quelli che proprio così “a Pa’” lo chiamavano per giocare a pallone, poesia dei corpi, anche quella. E i molti nei quali – come racconta Dacia Maraini nel suo affettuoso “Caro Pierpaolo” ricercava la giovinezza perduta
“Per il resto– evoca per lui un Lo Cascio misurato e per questo potente – , che volete, sono vissuto dentro una lirica”; e dentro la propria lirica rivive.
Dall’appassionata restituzione dell’attore siciliano – che offre a una platea gremita fascinazione e non di rado una commossa partecipazione – emerge un poeta elegante e lucido, molto di più dell’acuto ma già esploratissimo critico della contemporaneità, saggista e intellettuale. Ne emerge un uomo capace di tessere lungo la propria esistenza una trama di parole e di legami, d’affetti quelli famigliari su tutti) mai disgiunti dalla poesia e da essa trasfigurati.
Così, anche la rievocazione – per pochi, precisi, momenti cardine della biografia del Pasolini più umano, sostenuta dal rigore gelido di un verbale o dalla sincerità di una lettera fra intimi, diventa una nuova pagina in cui il verso muta forma. E anche da qui, forse da qui soprattutto – così suggeriscono anche regista e interprete – emerge la sua straordinaria contemporaneità, e la straordinaria capacità di leggere il tempo – oltre il proprio – finanche a prefigurare la propria fine con la spietata esattezza di chi dà l’impressione di saper vedere oltre lo sguardo altrui.
E nello scorrete cristallino dei versi emergono parole chiave eloquenti, dalla morte alla luce.
In una messa in scena che forse si concede qualcosa di troppo in termini di muri che calano dal soffitto a restringere il prato, svetta un Lo Cascio straordinario e un canto di riconoscenza – e riconoscimento. Perché cento anni dopo la sua nascita abbiamo ancora bisogno di evocare quel che disse Moravia per salutarlo nel giorno dei funerali, che terminato il secolo dalla sua nascita si rivela ancor più vero quanto più se ne allontana la memoria del corpo: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro”.
Foto © Serena Pea