Tolstoj tra fede e razionalismo
Un bellissimo principe, nobile e fedele, dedito a un costante esercizio di perfezionamento della propria morale, profondamente sincero e orgoglioso. Questo l’iniziale ritratto che Tolstòj ci regala di Kasatskij, un comandante destinato a una luminosa carriera alla corte di Nicola I e prossimo al matrimonio con un’attraente contessa. Scorrendo le prime pagine di Padre Sergij – ripubblicato da Garzanti a febbraio 2017 -, abbiamo l’impressione di essere immersi in uno dei più celebri romanzi dell’autore e di entrare in relazione con figure quali il principe Andrej o l’ufficiale Vronskij; eppure il breve racconto che ci attende solleva il sipario su una scena intima, volta a mostrare il percorso interiore di un uomo alla ricerca della propria essenza.
Scritto tra il 1889 e il 1891, Padre Sergij rappresenta uno dei frutti della seconda fase della produzione tolstoiana, quella successiva al 1880, che rivela un sostanziale cambiamento nella visione del mondo dell’autore. Colto da una complessa e oscura crisi spirituale, l’uomo Tolstòj perde fiducia nel suo riferimento principe, la ragione. Il razionalismo tolstoiano si rivela come una vera e propria fede, capace di rivelare il senso intrinseco del mondo e della vita, il bene assoluto cui aspirare tramite una ferma conoscenza. Il nostro autore riceve infatti la tipica educazione riservata all’antica nobiltà russa e, grazie ad essa, sviluppa una forte speranza nel progresso, convinto che tutto ciò che è razionale si evolva e che la scienza possa fornire risposte adeguate ai dubbi umani. I grandi scrittori del momento sono le sue principali frequentazioni e, riuscendo presto a spiccare fra essi, Tolstòj giunge all’apice della sua carriera avvolto da una rassicurante agiatezza economica. Proprio in questo momento, quando sembra non mancargli nulla, la fede progressista tolstoiana subisce un contraccolpo, un urto che non gli avrebbe più permesso di fare ritorno alle antiche sicurezze. Assistere ad un’esecuzione capitale e trovarsi di fronte alla spiazzante ed unica verità che la vita dell’uomo è solo un assurdo e malvagio scherzo, sono esperienze che scuotono a tal punto l’autore da fargli attraversare una lunga crisi spirituale che, attraverso un lungo e ininterrotto lavorio interiore, lo porterà alla convinzione che l’amore di Dio è l’unica legge morale che possa esistere per l’uomo. In Una Confessione, testimonianza autobiografica composta tra il 1879 e il 1882, il lettore diventa spettatore proprio di tale percorso, partecipa e assiste al tortuoso cammino dell’autore, ossessionato inizialmente dall’idea del suicidio, rassicurato poi da una personale e quasi anarchica fede religiosa che gli permette di trovare pace nell’animo e di affermare che “senza fede non si può vivere.” Tolstòj restituisce la propria personale soluzione a un problema, quello del senso della vita, che accomuna tutti gli uomini in tutte le epoche. Confrontarsi con Una Confessione può essere, anche per il lettore contemporaneo, un’esperienza rivelatrice, capace di scuotere l’animo e di creare l’intenzione di indagare sull’assolutezza di alcuni temi esistenziali.
Quale dunque il filo che lega un promettente e veemente comandante a un uomo vittima e salvezza di sé stesso? Apparentemente nessuno. Eppure il principe Kasatskij ha molteplici punti di contatto con l’uomo dalla cui penna è stato creato. La concezione della vita come uno scherzo crudele si staglia già nel momento in cui Kasatskij viene a conoscenza della natura traditrice della sua futura sposa, amante dell’uomo oggetto di venerazione da parte del nostro personaggio, Nicola I. Impossibilitato a raggiungere l’agognata perfezione nell’ambito della tipica nobiltà degli anni Quaranta, sembra non esservi altra via per Kasatskij se non quella di vestire gli abiti monacali, decisione che “solo la sorella, altrettanto dotata di orgoglio e amor proprio, capiva.” Kasatskij infatti
“facendosi monaco dimostrava di disprezzare ciò che un tempo, quando era ufficiale, era parso così importante agli altri e a sé stesso; e si elevava a un’altezza nuova che gli permetteva di guardare dall’alto in basso tutti coloro che prima invidiava.”
L’orgoglio e la volontà di trovare una personale dimensione nella quale perseguire il proprio scopo di perfezione, ecco i motori che lo guidano in una così radicale scelta. Sergij: il nome simbolo di questa nuova vita.
Padre Sergij condivide con il suo autore il continuo fervore e i chiaroscuri interiori, l’apparente ed estenuante impossibilità di separarsi dalle superstizioni mondane e la gloria come costante seduzione. Sembra rappresentarne un alter ego, uno specchio in cui Tolstòj può rivivere il tormento e il mistero della fede. Tuttavia la confortante fiducia in un ente superiore, capace di conferire senso e di domare le inquietudini dell’animo, si stabilisce non senza fatica in loro.
Novello monaco, Sergij mostra una tenace determinazione nel tentativo di compiere la scalata gerarchica all’interno del mondo ecclesiastico. Lo cogliamo infastidito nel momento in cui sono altri monaci ad officiare le funzioni, restio a intrattenere rapporti con la società all’interno della quale svettava, intimamente turbato dal contatto, seppur saltuario, con il genere femminile. Il nostro personaggio, nei passaggi focali che l’autore ci descrive, svela la complessità di vivere il salto della fede, la difficoltà di coltivare una coscienza religiosa. Il cammino mistico di Sergij, così come quello di Tolstòj, non prende il via in modo spassionato e disinteressato. Entrambi si imbattono nella fede perché impossibilitati a costruirsi una dimensione appagante nel mondo. Inginocchiarsi e segnarsi diventano gesti quotidiani che preannunciano una tortuosa e intima battaglia. Padre Sergij infatti ripete
“La sua preghiera infantile: “Signore, prendimi, prendimi”. […] E si mise in ginocchio con quel perfetto movimento consueto che, di per sé stesso, gli procurava consolazione e piacere.”
Padre Sergij trova nella vita monastica l’unica e inesorabile risposta alla delusione della dimensione mondana. Apparentemente immune da ostacoli e da frustrazioni, il cammino ecclesiastico assume per Sergij i connotati di un porto sicuro in un mare in tempesta. I contorni di questo porto, tuttavia, si fanno sempre più indefiniti e confusa diviene l’intimità del personaggio, al punto da avvertire che il suo sentimento si indeboliva. Questa lotta interiore, sintomo di una fede nata in modo ambiguo, lo porterà a trovare un’apparente senso di pace nella solitudine della vita eremitica, che vivrà mosso dalla speranza di sconfiggere l’orgoglio mondano e di sentire pienamente e profondamente Dio in sé.
Partecipare al sentimento di spaesamento che coglie Padre Sergij rende inevitabile l’evocazione del dramma interiore che Tolstòj descrive con vividi caratteri in Una confessione. L’orgoglio per la propria intelligenza possiede in modo così assoluto Tolstòj da fargli credere di poter svelare i misteri dell’esistenza umana tramite la conoscenza: un inevitabile errore che mostra a tratti definiti come la profondità del problema sia stata sottovalutata. Acquisire la consapevolezza della fallibilità della ragione si presenta per il nostro autore come una rivelazione angosciante e inaspettata. Tolstòj tuttavia non è solo di fronte all’universale questione del senso della vita. Si confronta infatti con menti elevate quali Socrate, Schopenhauer, Salomone e Buddha, nella speranza di trovare risposte alla propria inquietudine. Uomini che, in diverse epoche e contesti, si sono interrogati su temi di portata universale e che mostrano come determinate questioni appartengano a una dimensione estranea al luogo e al tempo. L’esito di questa ricerca si rivela altrettanto desolante e questo vagabondare tra le scienze non lo conduce a una soluzione. C’è tuttavia qualcosa che sfugge a Tolstòj, che si chiede quale soluzione la restante umanità abbia trovato al problema. Quale oscura conoscenza permette loro di vivere? Cogliamo in queste pagine l’intimità e la solitudine dell’autore: uno stato di confusione che rievoca le sensazioni provate dal protagonista di “Memorie di un pazzo” (1884). Ansia, pena e tormento.
Torniamo per un momento al monastero di Tambino, dove Padre Sergij trascorre un’esemplare esistenza da eremita, tanto che la sua fama non tarda a diffondersi. Una lunga e bianca barba e la capacità di guarire i malati fanno di lui un vero starec. Finalmente la perfezione. Eppure l’animo di Sergij, nonostante l’appagante posizione ecclesiastica, vive lo stesso tormento del suo autore e del protagonista di “Memorie di un pazzo”. Un opprimente desiderio sessuale si affaccia nel suo spirito apparentemente pacificato. Se in passato il monaco aveva spento l’ossessione di tale desiderio tagliandosi una falange di un dito, quale necessario gesto simbolico, ora l’unica via che gli risulta percorribile è la fuga. La barba viene recisa con decisione e vengono indossati modesti abiti da contadino, gelosamente custoditi per l’occasione sino a quel momento. Un sogno rivelatore, un lungo cammino e il mistico incontro con un’umile donna, Pašen’ka, dimenticata ormai da molti anni.
Quale alter ego del suo autore, Padre Sergij, così come il protagonista di “Memorie di un pazzo”, nel contatto con la pura fede dei contadini, riesce a scorgere il mistico senso della vita. Pašen’ka infatti
“Non riusciva quasi fisicamente a sopportare i cattivi rapporti tra la gente” e “non provava l’orgoglio della generosità, ma anzi si vergognava che fosse tanto poco.”
La semplicità e l’umiltà di un personaggio come quello di Pašen’ka permette a padre Sergij di sperimentare forse per la prima volta il vero messaggio della fede e di spegnere in sé gli orgogliosi residui del vecchio Kasatskij.
Un intenso percorso mistico quello di padre Sergij, capace di riflettere l’intima esperienza di Tolstòj, così appassionatamente rievocata nelle pagine di Una Confessione. L’autore comprende il vero senso dell’esistenza solo stando a contatto con il popolo contadino, vivendo con esso e osservando da vicino la bellezza dei suoi semplici gesti, così come la mortificazione dell’animo e la coraggiosa accettazione delle difficoltà. Solo così, solo sperimentando la via di una fede quasi ingenua, Tolstòj può affermare che:
“Tutte le nostre azioni, il nostro modo di pensare, la scienza, l’arte, tutto questo assunse ai miei occhi un nuovo significato. Compresi che così ci si trastullava, senza la possibilità di trovare il senso dell’esistenza. E contemporaneamente la vita del popolo lavoratore, di tutta l’umanità che costruiva concretamente la vita, mi apparve nel suo autentico significato. Compresi che quella era la vita autentica, compresi che il senso che le veniva attribuito era la verità, e l’accettai.”