Cajkovskij, Stravinskij, Scrjabin eseguiti all’Auditorium dal direttore Stanislav Kochanovsky e dalla violinista Solenne Païdassi
La Russia ha tante anime, anche musicali, sempre oscillanti tra aperture all’“esotico” mondo occidentale e ripiegamenti profondi in vertiginose estasi mistiche. Nel concerto de laVerdi di venerdì scorso (replicato domenica) abbiamo potuto ascoltare tre di queste anime, contraddittorie e, proprio per questo, affascinanti come solo le grandi anime possono essere.
Guidata dal direttore Stanislav Kochanovsky, l’Orchestra Sinfonica di Milano ha eseguito la Terza Sinfonia di Cajkovskij, il Poema dell’estasi di Scriabin e il Concerto per violino di Stravinskij (solista la violinista francese Solenne Païdassi).
Come al solito in questi mesi, il concerto si è aperto con una delle ventiquattro Expo Variations composte da Nicola Campogrande appositamente per laVerdi; questa volta è stato il turno della Germania, omaggiata con una pagina sinfonica basata sull’inno nazionale tedesco (la cui musica si deve a Haydn): un turbinio sfavillante di note, gioco sonoro che ben si adatta a quel gigantesco luna-park che in fondo è l’Expo.
Dopo questo preludio, la prima parte del concerto è stata interamente occupata dalla Terza Sinfonia di Cajkovskij, nota con l’appellativo di “Polacca” per via dell’ultimo movimento, basato sul ritmo dell’omonima danza. Si tratta di un brano poco noto, un po’ la cenerentola delle sinfonie cajkovskiane, interessante in alcuni momenti (l’imponente coralità di certi passaggi del primo e ultimo movimento e, viceversa, la frammentazione timbrica di altri passaggi più intimi, come nell’Andante elegiaco), ma nel complesso non pienamente compiuto.
Di altra levatura è il Concerto per violino di Stravinskij, con il quale si è aperta la seconda parte del programma. Scritto nel 1931, si suddivide in quattro tempi che, pur riecheggiando strutture barocche, alternano aspre sonorità tipicamente novecentesca a momenti di intensa cantabilità. Una partitura complessa, dunque, che la solista Solenne Païdassi affronta con naturalezza e sicurezza, esaltando di volta in volta il gesto virtuosistico o quello lirico (bellissima l’Aria II, forse il momento più intenso dell’intera serata); da segnalare, inoltre, l’aspetto concertante della composizione, messo efficacemente in luce da direttore, solista e orchestra.
In tutt’altro clima ci trasporta la composizione finale: la Quarta Sinfonia di Scrjabin, ovvero Il poema dell’estasi. Sebbene nata da riflessioni mistico-filosofiche (come quasi tutte le più importanti opere di Scrjabin), il percorso che aveva in mente il compositore non è decisivo per la fruizione del brano: qualcosa di misterioso e immenso emerge da solo nel magma incandescente di suoni che per venti minuti inonda l’ascoltatore tra continue onde di suoni, grazie anche all’accurata direzione di Kochanovsky, perfettamente a suo agio in questo repertorio, e all’orchestra (menzione per i fiati, sia qui che in Stravinskij) che lo segue con altrettanta accuratezza, regalando al pubblico la giusta estasi conclusiva.