il 34enne Ameen Nayfeh, nato a Nazaret, esordisce nella regia (con premio a Venezia 2020), raccontando i drammi di una famiglia divisa dal Muro eretto dagli israeliani in Cisgiordania. Per Mustafà la vita è divisa in due: di qua c’è la casa, la madre e la sua terra, di là la moglie, i figli amatissimi e un lavoro da inseguire ogni giorno. Ma questa già difficile quotidianità viene sconvolta un giorno dal grave incidente che porta il figlio in un ospedale. Quasi irraggiungibile
200 metri, tanto piccola ma insieme tanto grande è la distanza che separa la famiglia di Mustafà e di sua madre da quella della moglie Salwa e dei figli, le cui case sono divise dal Muro che divide palestinesi e israeliani in Cisgiordania. Lui vuole vivere nella sua terra, oltre la barriera, ma è separato dalle persone che ama e per vederle e lavorare quasi ogni giorno deve attraversare il confine, operazione non di rado infinita per le lungaggini militari e burocratiche, e qualche volta anche per soprusi veri e propri, spesso gratuiti. “E’ la mia storia, quella della mia vita”, spiega il regista di 200 metri, il 34enne Ameen Nayfeh, al suo primo lungometraggio premiato alle Giornate degli autori della Mostra di Venezia 2020 e in uscita ora in Italia “Ed è anche quella di migliaia di palestinesi. Ci siamo abituati a adattarci a nuove situazioni, a fare come ci viene detto, a camuffare i nostri sentimenti. Ma ciò non dovrebbe essere più accettabile”.
La parabola di Mustafà, da quotidiano, “normale” percorso a ostacoli diventa un dramma quando viene avvisato che il figlio ha avuto un incidente piuttosto grave ed è ricoverato in un ospedale israeliano: al primo checkpoint gli negano l’ingresso, così lui chiede aiuto a un contrabbandiere, e insieme ad altri e variegati passeggeri (tra cui un’ambigua fotografa tedesca) percorre in auto il confine sperando di trovare, in un percorso che sarà lungo oltre 200 chilometri, un punto d’ingresso sguarnito. Il viaggio, come in una sorte di moderno Ombre rosse svela caratteristiche sociali e psicologiche di un’umanità sofferente e arrabbiata, che nonostante l’obiettivo comune inizia, come nel film di Ford, a litigare. Alla fine il ragazzo si salva, ma la famiglia resterà divisa, unita idealmente dall’affetto ma nella realtà solo da due file di lampadine colorate che la sera genitori e figli accendono e spengono, per salutarsi a distanza. Sperando che il giorno dopo riusciranno a incontrarsi almeno per qualche ora. Anche questo è amore.
200 metri è chiaramente un film politico: la metafora della distanza, minima ma quasi incolmabile, che divide le due parti della famiglia di Mustafà richiama le difficoltà, la non volontà della politica, locale e mondiale (i palestinesi non hanno un pil significativo, né parenti che votano alle elezioni di grandi stati, quindi si può tranquillamente ignorare i loro problemi) di affrontare questo dramma che ormai da decenni è passato quasi in secondo piano, nonostante le sofferenze, le guerre e gli attentati continui che produce. Due popoli condividono lo stesso territorio, ma non riescono e spezzare la linea dell’ostilità reciproca, armata e non. E l’evidente disparità dei rapporti di forza condanna i palestinesi sconfitti, diseredati, disuniti politicamente, a vivere una realtà disunita, spesso con risvolti surreali.
Il primo pregio del film è però quello di non seguire la via dell’invettiva ideologica, ma di raccontare la realtà quotidiana: sullo schermo non ci sono temi, drammi in astratto, ma uomini e donne che non possono incontrarsi, né raggiungere un proprio figlio in ospedale. “Le immagini del muro, dei posti di blocco e dei soldati sono, probabilmente, la prima cosa che viene in mente quando si pensa alla Palestina” dice ancora il regista. “Immagini presenti anche in questo film, il cui tema centrale sono le conseguenze su noi esseri umani di una separazione del genere, le barriere e i muri invisibili che si creano a seguito delle barriere fisiche”. E un processo storico complesso, ben riassunto in una piccola metafora geometrica, come il concetto di spazio/tempo nella parabola di Achille e la tartaruga.
Alla buona riuscita del film contribuisce sicuramente la rocciosa interpretazione di Ali Suliman, attore di formazione teatrale, figlio di una famiglia esiliata dalla Galilea nel 1948, nato a Nazaret nel 1977 e star del cinema del suo paese dal 2004 grazie al ruolo di protagonista in Paradise Now di Hany Abu-Assad, nominato all’Oscar e vincitore di un Golden Globe. Accanto a lui ottima anche la ottima prova di Samia Bakhri che dà volto alla moglie Salwa. Di pregio anche le musiche, opera dell’eclettico compositore e pianista palestinese Faraj Suliman, che mescola melodie e ritmi arabi/orientali insieme a spunti jazz.
200 metri, di Ameen Nayfeh, con Ali Suliman, Samia Bakri, Tawfeeq Nayfeh, Maryam Nayfeh, Salma Nayfeh,