Palma n.2 a Ostlund, naufrago tra i vip cinici. Ma “The Square” era altra cosa

In Cinema

“The Triangle of Sadness”, apologo sul capitalismo a bordo di uno yacht reale, ha dato al regista svedese per la seconda volta in pochi anni il massimo premio al Festival di Cannes. Però il film è prolisso, dilatato, e a parte il divertente Woody Harrelson che fa il capitano comunista e alcolista, non centra davvero i suoi bersagli: la polemica contro il machismo e il cinismo dei ricchi resta di facciata

Esce in Italia The triangle of sadness, il film con cui lo svedese Ruben Ostlund ha vinto al Festival di Cannes, quasi consecutivamente, la seconda Palma d’oro dopo The Square, radiografia delle mode artistiche e delle ingiustizie sociali unite in un racconto cinico e disturbante. Ora la ruga della tristezza riporta l’autore in un alveo di critica più tradizionale e anche un poco banale: la “triangle of sadness” è quella che si forma tra le sopracciglia, un piccolo solco tra gli occhi per dimostrare quanto siamo preoccupati delle sorti personali e di quelle del mondo. Molti personaggi del film esibiscono per varie ragioni il loro triangolo di tristezza, a cominciare dalla giovane e bella coppia formata da un modello e una influencer che nel primo atto litigano per il conto in un ristorante.

Segue, II atto di questa parabola di 147 minuti, la partenza per una crociera di vip, girata nel reale yacht Christina che ai tempi era di Onassis, ed è perfetta la scelta essendo un’avventura sul capitalismo neanche tanto metaforica e travestita per un’ora abbondante da Titanic, con sfoggio di rullii e gente che dà di stomaco. Più sono ricchi ed eleganti, più vomitano e la cosa si prolunga oltre i limiti, più che in un famoso film dei Monthy Python. La cosa divertente, oltre le varie coppie di produttori di armi e simili col conto in banca, è il personaggio del comandante (Woody Harrelson), un marxista convinto ma anche alcolizzato convinto per cui si diverte a giocare a indovinelli e battute come nella canzone di Gaber su destra e sinistra. Intanto scivolano ricchi arredi, il disastro è vicino, i superstiti arrivano naufraghi nell’isola deserta, e questo è il terzo atto.


Macchè Wertmuller travolta da insoliti destini, come dice Ostlund, e meno che mai Bunuel la cui forza di sintesi è del tutto sconosciuta al regista svedese. L’ultima parte è solo un copia incolla di una famosa illuministica commedia del 1724 di Marivaux, data anche da Strehler al Piccolo, in cui alcuni naufraghi, complice il pericolo, si scambiano gli abiti e con quelli la posizione sociale.

A differenza dei geniali e provocatori Forza maggiore e The square, l’autore svedese chiude la trilogia sul machismo con un cinismo tutto di facciata, un grottesco mangiatutto che cade nel tranello dell’ovvio, il peggiore per un autore elegantemente allegorico ma col vizio di allargare i tempi, gonfiando ogni scena con ripetizioni alla soluzione. In effetti di fronte a tante e tali ingiustizie dovrebbe arrivare l’Apocalisse, ma invece ci fermiamo in un moderno ascensore che ci mette in contatto con un resort vip, aspettando migliore occasione per riportare equità in un mondo sempre più folle…

The Triangle of Sadness, di Ruben Östlund, con Woody Harrelson, Harris Dickinson, Charlbi Dean Kriek, Vicki Berlin, Henrik Dorsin, Zlatko Burić, Jean-Christophe Folly, Iris Berben, Dolly De Leon, Sunnyi Melles, Amanda Walker, Oliver Ford Davies, Arvin Kananian, Carolina Gynning, Ralph Schicha

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