Un museo che è anche un libro che è anche un museo, da non dispiacere a Borges. Lo scrittore di Istanbul Orhan Pamuk, premio Nobel nel 2006, ha portato al Bagatti Valsecchi le vetrine del suo Museo dell’innocenza: per riflettere su come la memoria si depositi negli oggetti, su come si è trasformata Istanbul e su tanto altro ancora.
Benvenuti al museo dell’innocenza. In questo viaggio sarete guidati da me, Orhan Pamuk, e da Kemal Basacı, il protagonista del mio romanzo Il Museo dell’Innocenza. Il romanzo inizia nel 1974 e racconta la storia d’amore di Kemal per la sua lontana parente Füsun. Dopo che la donna si sposa con un altro uomo, per nove anni Kemal continua a farle visita nella casa poi trasformata in museo. Nel frattempo, raccoglie qualsiasi oggetto che gli faccia venire in mente la sua amata, compresi i mozziconi di sigaretta.Le immagini e gli oggetti descritti nei vari capitoli sono disposti nelle diverse vetrine secondo l’ordine della narrazione…
Così si apre l’elegante libretto – realizzato dagli studenti dell’Accademia di Brera – che ci guida e prepara alla visita riportando frasi tratte dal libro Il Museo dell’Innocenza (Einaudi 2009) che della mostra è, per ammissione dello stesso Pamuk, il catalogo.
Nel 1958 lo scrittore Max Aub pubblica il romanzo Jusep Torres Campalans in cui narra la vicenda di un pittore catalano incontrato in Messico. Amico di Picasso l’artista è appartenuto alla prima fase cubista. Di Campalans, Aub pubblica oltre alla biografia anche il “quaderno verde” in cui si trovano considerazioni umane, politiche e artistiche. Aub organizza poi delle mostre dell’artista: alla Galería Excelsior di Città del Messico nel 1958 e alla Bodley Gallery di New York nel 1962. Tra gli scrittori entusiasti della riscoperta di Campalans è André Malraux. Il Centro de Arte Reina Sofía gli dedica una retrospettiva nel 2003.
Tutta l’operazione era un colossale falso: il pittore Campalans non è mai esistito, i suoi quadri li dipingeva Aub (con l’aiuto di una nipotina), Malraux e gli altri intellettuali si erano volentieri prestati a un’operazione che, in un colpo solo, rimetteva in gioco la credibilità dell’idea stessa di romanzo e il sistema dell’arte novecenteschi.
Pamuk ha fatto di più: ha intessuto un’operazione in cui una raccolta di oggetti, la creazione di un museo, ha generato un romanzo il quale, a sua volta, ha stabilito le regole, le componenti, la qualità stessa del museo. Un catalogo che non si limita a descrivere ma che crea, orienta la formazione del museo di cui è a servizio.
Il museo dell’innocenza oggi esiste, è visitabile nello storico quartiere di Çukurcuma a Istanbul. Si trova nella casa dove avrebbe abitato la famiglia di Füsun in un intreccio realtà/finzione da capogiro.
Cosa è venuto prima? A detta dello scrittore turco, premio Nobel nel 2006, è l’idea di museo che è arrivata per prima, già «all’inizio degli anni Ottanta: un museo come archeologia di un recente passato massacrato dagli eventi, dalla modernizzazione, dall’occidentalizzazione». Si parla di Istanbul.
Un museo di che cosa? Pamuk, antropologo di se stesso, ha costruito una vertiginosa raccolta di oggetti che è però soprattutto uno straordinario museo della memoria. Il meccanismo originario è descritto nel libro: «[…] Quando indichiamo il momento più felice della nostra vita, siamo anche consapevoli che si tratta di un passato che non tornerà mai più, e questo provoca in noi un grande dolore. L’unica cosa che rende questo dolore sopportabile è possedere un oggetto, retaggio di quell’attimo prezioso. Gli oggetti che sopravvivono a quei momenti felici conservano i ricordi, i colori, l’odore e l’impressione degli attimi con maggiore fedeltà di quanto facciano le persone che ci procurano quella felicità».
Molte collezioni nascono da un’ossessione, quella di Kemal per Füsun è totale, paradossale anzi, un’ossessione d’amore che si protrae per tutte le 479 pagine del libro e che si materializza nelle 83 vetrine (una per ogni capitolo) del Museo. Vi si trovano gli attimi – felici e meno – di tutta una generazione. Il museo/romanzo finisce così per costituire l’autobiografia di Kemal/Pamuk ma anche l’autobiografia della città di Istanbul, che proprio in quegli anni, in un’onirica adolescenza, prefigura il carattere che gli conosciamo oggi (il museo fu inaugurato nel 2012).
È evidente che all’autore il romanzo non poteva bastare. Pamuk, che fino all’età di 22 anni aveva studiato per diventare pittore, ha creato quindi un mondo interdisciplinare in cui parole e oggetti, vetrine e pagine si intersecano totalmente (e non si dica multimediale, per cortesia. La cultura dell’autore, il garbato riflesso di Kemal e Füsun, la vetustà di Istanbul non lo consentono proprio).
Delle 83 vetrine del suo museo, Pamuk ne ha portate 29 al museo Bagatti Valsecchi di Milano.
La scelta del luogo non è casuale. Il museo con la sua raccolta di “oggetti quotidiani, banali, sebbene del Rinascimento” è stato uno dei luoghi che hanno scatenato la fantasia di Pamuk. Lo stesso allestimento, l’accumulazione di oggetti bellissimi ed eterogenei, le clessidre e gli orologi, i teschi, le suppellettili – tutti oggetti testimoni dello scorrere del tempo – accanto alle stoffe, ai dipinti, alle sculture, alle armature hanno costituito un’ispirazione irresistibile per il museo di Pamuk. Lo stesso allestimento, la presenza delle numerose vetrine che ospitano oggetti di diversa provenienza, l’aspetto familiare che la casa-museo milanese offre, richiamano inevitabilmente la scelta dello scrittore/archeologo/antropologo/collezionista.
E il museo dell’innocenza milanese va rigorosamente visitato dopo l’intensa esperienza che offrono le stanze del Bagatti Valsecchi. Nell’ultima le 29 vetrine richiamano forte due altri artisti: Joseph Cornell per la suggestione delle vetrine, Georges Perec per gli oggetti che altro non sono se non un elenco di istruzioni per l’uso della vita di ognuno di noi (anche Perec ha scritto un libro beffa sul sistema dell’arte, Storia di un quadro del 1979).
Le vetrine riportano i titoli dei capitoli. 1. L’istante più felice della mia vita, 2. La boutique Champs-Élysées, 12. Baciarsi sulle labbra, 13. Amore, coraggio, modernità…
Gli oggetti nelle vetrine sono quelli appartenuti a Füsun (orecchini, scarpe) e che Füsun ha usato (tazzine, bicchieri, piattini), assieme a fotografie, cartoline, biglietti di cinema, carte d’identità, un registratore di cassa, un vecchio tassametro, giocattoli di metallo e plastica, sveglie, orologi, insegne di negozi, figurine di calciatori e celebrità del cinema, un corvo imbalsamato, piccoli dipinti, posaceneri, frutta di plastica, pezzi di bambole e manichini, medicinali, liquori. Dulcis in fundo, i 4213 mozziconi fumati da Füsun nel corso di quel decennio…
Oggetti da guardare uno per un uno. Un elenco di cose lungo una vita. Visitando la mostra ci si ritrova in uno specchio che ci riflette nel romanzo e tra le vetrine: stiamo in uno dei luoghi di uno degli ultimi elenchi del libro, quello dei piccoli musei (Kemal ne visitò più di quattromila, Pamuk almeno diverse centinaia). I musei privati che tanta parte hanno avuto nella genesi di quest’opera multipla: il Jacquemart-André di Parigi, il Soane’s Museum di Londra, il Museo Frederic Marès di Barcellona, il Bagatti Valsecchi, per l’appunto (che viene citato con il museo Praz di Roma, il museo del Mare di Trieste, la casa di Pirandello ad Agrigento).
Non so se Pamuk conosca il libro di Francesco Orlando Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura il cui sottotitolo (Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti) potrebbe fare da epigrafe al museo. In questo libro si cita una poesia che sarebbe piaciuta a Kemal. E che Pamuk condividerebbe. È di Borges, è stata scritta nel 1969 e si intitola Le cose:
Il bastone, le monete, il portachiavi
La docile serratura, le tardive
Note che non leggeranno i pochi giorni
Che mi restano, le carte e la scacchiera,
Un libro e nelle sue pagine l’appassita
Violetta, monumento d’una sera
Certo indimenticabile e già dimenticata,
Il rosso specchio occidentale in cui arde
Un’illusoria aurora. Quante cose,
Lime, soglie, atlanti, coppe, chiodi,
Ci servono come taciti schiavi
Cieche e stranamente segrete!
Dureranno più in là del nostro oblio;
Non sapranno mai che ce ne siamo andati.
Il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk, Milano, Bagatti Valsecchi, fino al 24 giugno
Tutte le immagini: courtesy museo Bagatti Valsecchi