Il posto nel mondo e nelle case. Molto si è parlato di donne e molto hanno parlato le donne durante l’emergenza. Che ci riconsegna tutta la problematicità del nodo della cura
Di donne si è molto parlato durante la pandemia e molto hanno parlato le donne di se stesse e del loro posto nel mondo e nelle case. Il filone più robusto, se non il tono di voce prevalente, è stato, ci sembra, quello che rimandava all’allarme e alla conseguente riflessione: che il lockdown scaricasse sulle donne un eccesso di lavoro di cura, che rinchiudesse dentro le mura domestiche situazioni di violenza che già in tempi ‘normali’ fanno fatica ad uscirne, che sul mercato del lavoro si potesse assistere, come esito di questo periodo, ad una ‘ritirata’ della già precaria occupazione femminile, ancor più stressata da obblighi familiari visto che le scuole resteranno chiuse fino alla fine dell’anno scolastico e non è chiaro come riapriranno a settembre. Allarme evidentemente motivato: c’è consistente letteratura ed esperienza a dimostrare quanto ancora fragile sia la presenza delle donne sul mercato del lavoro, quanto difficile culturalmente sia la condivisione e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per una serie lunga di ragioni, che hanno a che vedere con i ruoli di genere nello spazio privato e pubblico, con le resistenze maschili e delle organizzazioni del lavoro, ma anche con i modelli del materno che noi italiane abbiamo interiorizzato.
Che il tema non sia soltanto italiano però è evidente, tanto che – si può leggere qui – un agguerrito gruppo di donne tedesche ha emesso fattura al governo per il surplus di lavoro, inclusa l’assistenza all’istruzione a distanza, che hanno dovuto fornire ai loro figli durante il lockdown e che hanno quantificato nella discreta somma di 8mila ero a testa. L’intento della campagna, che ha suscitato un certo dibattito e varie critiche, è chiaro: far emergere dall’oscurità in cui resta il lavoro, necessario alla vita degli umani, che le donne svolgono dentro le mura domestiche. È quello che, tra le altre, ha di recente sostenuto sulle pagine di Io Donna, l’economista femminista Antonella Picchio, ricordando che se l’emergenza rendesse evidente cosa di diverso ha significato, l’indicazione ‘Restiamo a casa’ per uomini e donne sarebbe ‘un guadagno collettivo importante e politicamente illuminante’ per tenere conto, nell’architettura del lavoro per il mercato, della riproduzione e dell’attività di cura come condizione essenziale di sostenibilità del sistema.
Per valutare cosa ha significato il lockdown sulle vite concrete delle donne occupate in Italia Daniela Del Boca, Noemi Oggero, Paola Profeta, Cristina Rossi e Claudia Villosi hanno effettuato un follow up di una ricerca del 2019 su un campione di 1250 donne cui hanno chiesto come si sono modificati in casa i carichi di lavoro e la suddivisione con il partner. In estrema sintesi i dati riportati dall’articolo, uscito su la voce.info e su ingenere, mostrano che una maggioranza di donne – superiore al 60% – ha aumentato il tempo dedicato sia al lavoro domestico che di cura durante il lockdown, mentre tra i partner solo il 40 per cento lo ha fatto, mentre il 55 per cento non ha modificato il proprio comportamento in casa e il resto lo ha addiritttura diminuito. Una dimostrazione dell’effetto di tutto ciò sul lavoro femminile, in specie in accademia, si è potuta leggere su Nature a firma di Alessandra Minello.
Se questa è la fotografia della fase uno, la fase due, hanno sottolineato qui Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio, in Italia farà piovere sul bagnato, ovvero terrà a casa maggiormente le due categorie che già cumulavano difficoltà sul mercato del lavoro, ovvero le donne e i giovani.
“I progressi, lenti e faticosi, registrati negli ultimi anni sul fronte della partecipazione femminile al mercato del lavoro rischiano di essere vanificati dai vincoli imposti alle famiglie in lockdown, per le quali purtroppo un bonus babysitter o un’estensione del congedo parentale potrebbero non bastare” prevedono i due studiosi.
Anche l’economista Luisa Rosti sul Sole 24 ore – lo trovate qui – ha ragionato sul post Covid, a partire dalle asimmetrie del lavoro di cura, lanciando uno sguardo su un futuro che ci consegnerà una necessità ancora maggiore di cura soprattutto rispetto agli anziani e richiamando le aziende a tenerne conto molto di più di quanto non facciano. “Fa ben sperare, da questo punto di vista, una recente ricerca della Harvard Business School (Fuller and Raman 2019); il 73% dei dipendenti intervistati afferma di avere responsabilità di cura, e il 32% afferma di aver lasciato un lavoro perché l’azienda non teneva nella giusta considerazione queste esigenze (e non erano solo donne, ma erano in maggioranza, maschi, giovani e in carriera)” la sua conclusione.
E la nostra, qual è? Non c’è, ma, a vedere il bicchiere mezzo vuoto, si può dire – ed è un dibattito che dura da decenni e con accenti assai diversi in ambiti accademici e professionali, e più ancora tra i diversi femminismi – che il nodo della cura resta pervicacemente intrecciato, e spesso troppo duramente, alla vita delle donne. Anche laddove, come nel tempo dell’emergenza è risuonato da più parti, si rivendica un necessario cambio di paradigma che tenga conto delle vulnerabilità e della necessità di cura delle esistenze umane e le valorizzi, non si riesce a disegnare ipotesi che vincano, si potrebbe dire, sulla forza del reale. Cioè quello che si è appena descritto e che, come si è visto, la pandemia sembra aver rafforzato. Uno dei contributi sul tema, di interessante lettura, è venuto di recente da un gruppo di femministe della differenza (si può leggere qui ): “Non si risponde a questa doppia pretesa chiedendo per le donne solo un più alto tasso di occupazione e lasciando non si sa a chi il lavoro di cura, ma togliendo la sfera della riproduzione dal cono di invisibilità e sfruttamento in cui il primato della produzione l’ha confinata. Mai come oggi è evidente che questo primato va messo in discussione perché è un primato incurante, letteralmente, della vita. E mai come oggi le donne sono la prima linea di questo urgente ribaltamento delle priorità dell’agenda economica e sociale”. Detto che il tasso di occupazione femminile in Italia è uno dei più bassi d’Europa e dunque meriterebbe maggiore preoccupazione, sta a chi legge valutare se il documento che ha per titolo ‘Salto di specie’ risponde all’ambizione di una nuova agenda. Di certo prende le distanze dalle tante voci di donne che, in appelli e petizioni, hanno sottolineato l’assenza o la sparuta presenza delle competenze femminili nelle varie task force e commissioni create durante l’emergenza. Questione, questa del monopolio maschile, che se non preoccupa chi dovesse ritenere quelle task force abbastanza inutili o, in accordo con le autrici del documento, dovesse pensare che si tratta di ‘una querula richiesta di cooptazione” da parte delle donne e delle femministe della parità, resta, a dir poco, una sconsolante foto dell’oggi, Italia, anno di grazia 2020.
Insomma. Andrà tutto bene, come vuole la retorica della pandemia che ci è stata ripetuta fino alla nausea? Di certo le donne saranno ancora chiamate a non arretrare, su tanti fronti, pubblici e privati, in un contesto duro di crisi e a non lasciare che le lezioni che questa emergenza ci ha dolorosamente inflitto e consegnato finiscano nel dimenticatoio della ripresa. La nota positiva è che sembra che siano state proprio loro, le donne, si chiamino Angela o Jacinda, a dare migliore prova di sé, durante l’emergenza. Almeno a sentire (qui e qui) il Guardian.