La Fondazione Carriero presenta Giulio Paolini. del Bello ideale, a cura di Francesco Stocchi, mostra dedicata a uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, organizzata in stretta collaborazione con l’artista, che ripercorre l’intero arco dei suoi 57 anni di carriera, esponendo capisaldi della sua produzione, alcuni dei suoi celebri autoritratti, fino a tre nuove opere appositamente concepite per l’occasione. Un occasione imperdibile per entrare nel mondo di un gigante dell’arte del nostro tempo.
«“Nulla, nulla! E ho faticato per dieci anni.” Si sedette e pianse». Così Frenhofer, il protagonista de Il capolavoro sconosciuto di Balzac, reagisce al commento dei suoi amici pittori, gli unici a cui aveva deciso di mostrare l’opera a cui lavorava in gran segreto da dieci drammatici anni: non c’è nulla sopra la tela! Di fronte alla «moltitudine di linee bizzarre, che formano una muraglia di pittura» Porbus, pittore affermato ma lontano dal genio, e Poussin, giovane talento bohemienne, decretano loro malgrado il fallimento e la sconfitta dell’anziano, geniale pittore che di quell’impresa aveva fatto la sua ragione di vita. «C’è tanta profondità in questa tela, la sua atmosfera è così vera che non riuscite più a distinguerla da quella che vi circonda. Dov’è l’arte? Perduta, scomparsa!». Ma a nulla servono le spiegazioni. Frenhofer apriva la strada all’arte oltre la rappresentazione, concetto inconcepibile, incomprensibile ai suoi contemporanei.
Giulio Paolini sembra riprendere il discorso dal punto in cui Frenhofer ha ceduto, sopraffatto dallo sguardo dei suoi interlocutori, dalla fatica del lavoro, dall’impossibilità di cogliere quel nulla su cui tanto aveva lavorato. Com’era nelle intenzioni e nella visione di Frenhofer, in Paolini l’assenza di immagine nell’immagine crea un flusso interiore continuo che accoglie tutte le immagini negandole, come se tutta la sua produzione fosse in realtà un’unica opera, una continuità di appuntamenti in cui l’Artista vede, non crea, quello che poi regalerà all’umanità per il solo fatto di averla vista per primo.
Si è pensato a un’infinità di figure di artista che potessero incarnare il protagonista di Balzac, da Cezanne a Picasso agli artisti dell’informale astratto. Ma nessuna, a mio avviso, incarna e prosegue il tormento e la purezza di visione di Frenhofer come Giulio Paolini, artista che sfugge alle definizioni e alle rassicurazioni, che è concettuale e poverista senza esserlo mai stato davvero, che racconta per sottrazione concetti assoluti, che crea voragini di visione e di senso riflettendo, come Frenhofer, sulla stessa pratica artistica e sui suoi doveri, sui suoi motivi di essere.
«La missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla! Tu non sei un vile copista, ma un poeta!», dice Frenhofer al suo più giovane e compiaciuto collega, dibattendo sulla vita che deve scorrere sotto lo strato della pittura. E Paolini quella pittura la allude ma la toglie, rovescia le tele, lascia impronte, intelaia se stesso come sagoma in tela bianca, scambiando il suo sguardo d’artista con quello del soggetto dell’opera.
Non è una retrospettiva, questa splendida mostra alla Fondazione Carriero. È, come dichiara il curatore Francesco Stocchi, un viaggio interiore fuori dal tempo, incurante della cronologia e allestita per affinità elettive e per nodi di uno tra gli infiniti discorsi possibili, una volta accettato quel nulla da cui Frenhofer fu inorridito nel momento in cui riuscì, troppo presto per la storia, a raggiungerlo.
Paolini rincorre il Bello ideale esattamente come Frenhofer, nascondendolo tra le pieghe di un caotico lenzuolo, lasciando uscire solo il contorno delle sue mani ricalcate a matita sul retro di una tela il primo, un piede giovane e levigato il secondo. Il Bello è impenetrabile e inconoscibile. E il Bello ideale, in quanto tale, non esiste in funzione del suo raggiungimento ma della sua ricerca, dell’anelito che spinge in una direzione di conoscenza assoluta a cui solo l’Arte può ambire.
Un monumento alla Poiesis, all’arte come poesia, come significante autonomo per significati inafferrabili. Lo stesso Paolini, con un sorriso, ammette di essersi trovato a volte disorientato di fronte ai suoi stessi lavori, che suoi non sono perché, va ribadito, si tratta di visioni che l’artista cattura per primo e a cui dà una forma, e non di creazioni individuali. L’artista cerca e riflette, racconta e per primo si stupisce di quel racconto, che ha dei fondamenti, delle chiavi di lettura che aiutano l’approccio al corpus di opere, ma non certo una sua comprensione univoca e definitiva, che non può e non deve esserci.
«L’arte non è un messaggio ma un soliloquio e come tale non ci parla ma ci fa sentire che esiste, senza comunicarci nulla», dice Paolini. Ben vengano allora gli aiuti scenografici di Margherita Palli presenti in mostra a ricordarci come la Prospettiva, intesa come rappresentazione grafica dell’umanesimo, e la Metafisica di De Chirico, «un mio lontano parente», siano presenti nell’opera di Paolini, rischiarandola quel tanto che basta a non farci intimidire di fronte alle sue opere.
Di fronte ad angeli cadenti che non possono cadere – quasi una risposta all’Angelus Novus, l’angelo della storia di Paul Klee e poi di Walter Benjamin – alle colonne tronche ma doppiate da specchi, alle visioni ripetute come nello specchio di un barbiere o dissimulate in raffinatissimi estetismi dorati e, soprattutto, nella semplicissima e complessissima visione prospettica che cela un abisso di pensiero e di equilibrio anche fisico in Finis Terrae, lavoro più recente in mostra, è però chiaro che troppi appigli non vanno cercati.
Perché ogni spiegazione logica all’opera di Paolini, come fu per il Capolavoro sconosciuto del Frenhofer di Balzac, non può che far cadere chi guarda in un idea di un “nulla” che tale non è ma è casomai assenza, allusione, ricerca spirituale e conoscenza profonda.
Immagine di copertine: Giulio Paolini, Ritratto dell’artista 1980, parte2