Vedete di nascere in provincia. Addirittura in campagna. Trasfiguratela come volete, ma portatevela dietro in quello che scrivete. Perché è lei che vi ha un po’ deriso, ma anche spinto ad andare. Riascoltare (tutto, visto che ci siete) Paolo Conte per convincersene
Il quinto segreto del successo l’ho scoperto nella piazza d’armi della Cittadella di Alessandria la sera del 9 luglio 2010. Buio torrido, zanzare feroci. Laggiù, la conchiglia scintillante del palco su cui Paolo Conte si esibisce con i suoi musicisti. Alla fine di un brano (Happy feet? Diavolo rosso?), il maestro fa un cenno, si alza in piedi, si sfila via dall’immenso pianoforte a coda, a passi incerti raggiunge il microfono ad asta montato al centro del tavolato e attacca Una giornata al mare (o Hemigway o Novecento). E io ho tre minuti circa per guardarmelo tutto intero.
Ha la giacca stazzonata, e sembra diversa dai pantaloni. Invece della camicia candida, del papillon da Opera, una polo. La figura poi appare tozza, persino un po’ goffa. Gesticola, ma non bene, piuttosto come uno che non è abituato. E le mani sono grandi, troppo, grossolane quasi. Il mitico naso che sulle copertine dei dischi aumenta il fascino dello chansonnier, beh, il naso si vede perfino dal mio posto sugli spalti montati per l’occasione e somiglia a quelli che incontro al bar sottocasa e in piazza la domenica mattina. E anche gli occhi infossati, la bocca storta, le dita così. Penso che forse una faccia simile l’ho già vista esibirsi sul palchetto della festa dell’Unità, una mano come quella pestava un valzerino sulla tastiera. L’illusione è tale che, alle spalle dell’Avvocato che canta Gli impermeabili o Azzurro o Vieni via con me, per un attimo non riconosco più l’orchestra dell’Olympià de Parì, intravedo piuttosto un complessino alla buona, gente che, d’estate, arrotonda col liscio, sagra della lasagna e dei salamini, forse si chiamano Melodica o Lillo’s Jazz Band, il tizio col sax me lo figuro mentre soffia dentro il clarinetto nella banda del paese.
È la provincia, la vedo, la riconosco, non ho dubbi. Nel muoversi all’ingrosso, nel zinzino di imbarazzo di uno che sta in piedi davanti a tutti con la giacca sbagliata, esposto, lontano dall’abbraccio del pianoforte-mamma.
Non so se la vedono anche gli altri, ma io sì. La fame che ti divora se vieni al mondo in un posto che sta sempre un passo indietro, e lontano da tutto. Il desiderio, la voglia di scappare una buona volta dal natio borgo selvaggio. La paura di mollare tutto (ciao amore ciao, quanto era provinciale l’immenso Luigi Tenco). Il senso di inadeguatezza (chi ti credi di essere?) che è anche uno spintone tra le scapole: vai, vai, prova, ora o mai più.
«Come reagirono i miei concittadini alla decisione di cantare e poi al mio successo all’estero? Ci fu prima la derisione, poi l’applauso. Ma è normale, automatico» racconta lui in Fammi una domanda di riserva, uscito lo scorso anno per Mondadori. Perché la provincia è spesso all’origine del gran can can che è la vita di un artista di successo. Non ci credete? Controllate dove sono nati gli scrittori protagonisti della puntate precedenti (a parte Trollope, che però visse molti anni lontano da Londra). E’ derisione che tempra aspettando l’applauso, messa in prova quotidiana di talento e determinazione. E’ una Spiegazione.
Ma come mi si è miracolosamente manifestata nella notte padana, di colpo la provincia/spiegazione sparisce, il tempo di una canzone e si è ritratta, inghiottita dal pianoforte di gran marca, dalle luci strobo, dagli orchestrali in smoking, dal brillìo degli ottoni.
Grazie Paolo Conte, ho capito, e per questo agli aspiranti scrittori di successo che leggono questo manuale consiglio: vedete di nascerci, in provincia. Serve. Aiuta. Forse è addirittura indispensabile. Il miglior corroborante, il motivo per cui. Meglio ancora sarebbe nascere in campagna, che è più provincia della provincia.
E dopo che ci siete nati, portatevela dietro. Mettetela nei vostri testi, va bene anche travestita da Timbuctù, Babalù e Zanzibar. E ogni tanto, esibitela. Non abbiate paura. La prima volta che l’hanno invitato a Parigi, Paolo Conte si è fatto coraggio con una canzone che si intitola À cheval sur mon bidet e fa così:
À cheval sur mon bidet
Quand il trotte il est parfait.
Au pas, au pas, au pas,
Au trot, au trot, au trot,
Au galop, au galop, au galop!
Gliela cantava la nonna facendolo sobbalzare sulle ginocchia. Ha poi scoperto che le parigine la cantano ancora ai loro figli. Insomma, casa vostra rischiate di ritrovarla uguale uguale nella ville lumiére. E magari vi aprirà i cuori dei francesi. Genova per noi, per dire, la canzone dei contadini piemontesi spaesati di fronte alla città e al mare che non sta fermo mai, fa impazzire gli americani che affollano il Blue Note di New York. Chissà perché, ma succede..E se poi siete nati a Milano, se vi è toccata in sorte la metropoli, consolatevi: «l’Italia è tutta provincia». Parola di monsieur Conté.
Morale: Paolo Conte è nato ad Asti nel 1937. Ha suonato a Parigi, Amsterdam, Berlino, New York, Chicago. Ha ricevuto il Premio Montale e il premio Chiara. È anche Commendeur de l’Ordre des Arts et des Lettres e Cavaliere di Gran Croce. Ha un paio di lauree ad honorem, una in lettere e una in pittura, e svariate targhe Tenco. Il curatore di Fammi una domanda di riserva, Massimo Cotto, dice che vive tra Asti (la residenza) e il rifugio tra Scurzolengo e Portacomaro, cioè campagna. Meno di ottanta chilometri da casa mia, che è la stessa campagna. Ho deciso che lo prendo come un segno.
Immagine di copertina: Wikimedia Commons