“Fumana” di Paolo Malaguti: la resistenza e il mistero

In Letteratura

Nata durante un’alluvione, cresciuta dal nonno, unica pescatora delle valli della bassa polesana, iniziata all’arte della cura con erbe e segni da una strigossa di paese. Fumana è come la nebbia contenuta nel suo nome, una creatura intrepida e avventurosa, tenera e libera, resistente e misteriosa: una piccola dea delle acque, che compie la sua esistenza guerriera in un mondo che sta costruendo la propria fine. E si fa parabola di umanità nonostante gli uomini.
Nel nuovo libro di Paolo Malaguti, ambientato tra la fine dell’Ottocento e il primo cinquantennio del XX secolo, la ricostruzione della memoria rimossa della civiltà contadina nella pianura padana, dei suoi riti e delle sue credenze. E una splendente figura di protagonista che riscrive – aggiornato e corretto – il meglio delle eroine del romanzo di formazione e d’avventura, tra Salgari e Lady Oscar.

Il precipizio della guerra è sempre accuratamente preparato, e ha radici che corrono all’indietro nel tempo, ben decise ad agire sulla memoria. Per prima cosa, infatti, bisogna cancellare il ricordo dei fatti dell’epoca precedente – o per lo meno mondarli delle parti che non si possono domare.
Così, di quella protesta contadina che incendiò gli argini del Po e la bassa pianura del Veneto fino alle propaggini della laguna si perdono veloci le tracce, e sopravvivono solo nelle intime insubordinazioni di qualche borbottio di vecchio. E dire che l’innominabile rivoluzione dei poveri era stata pervasiva: la boje, si mormorava, ovvero stava a bollire tutta la faccenda, e non fosse stato che per gli schioppi dell’esercito chiamato dai padroni, la primavera del 1885 avrebbe potuto segnare tutt’altra svolta.
Per sopravvivere nella vita grama delle febbri e della fatica, a quel punto, altro non restava che inventarsi il contrabbando, o la furberia. Oppure, agli estremi, prendere la via per la Merica, perché

Per i pitocchi l’unica cuccagna in cui sperare è quella dell’altro mondo.

E questo ce l’ha ben presente, Petrolio, il primo personaggio che si incontra nel nuovo romanzo di Paolo Malaguti, Fumana, pubblicato da Einaudi, che si spartisce da pari la scena con la nipote: la destinataria di quel tempo di rabbia e buio e dolore accuratamente preparato, si diceva, nei decenni della coltivazione del divario sociale e della frustrazione, raccolti con intenzione dal fascismo fino ai prevedibili esiti del conflitto.

Quando la guerra finisce, finisce perché magari non ti arrivano più bombe sulla zucca e schioppettate nella schiena, ma come la mettiamo con il dolore di chi ha visto il marito ammazzato dal tale che vedi passare ogni giorno per andare alla messa? O con la rabbia di un figlio che ha visto il padre scannato come un porco, in mezzo all’aia?
Le guerre sono come le piene dei fiumi. Arriva l’onda, rompe gli argini, l’acqua invade la campagna. Poi l’acqua rallenta poco per volta, gli argini vengono ricostruiti, ma il fango resta a lungo. E l’impronta della piena sui muri, fin sui mobili, resta ancora più a lungo.

Dunque quella scintilla di ribellione rimasta nel fondo degli occhi del nonno al tempo della sua giovinezza, compie, nelle pagine di questo romanzo, una parabola diventando fuoco lungo tutta la vita della nipote: bambina segnata profondamente dalla sorte fin dalla sua nascita (avvenuta fortunosamente in mezzo alla piena dell’Adige), subito seguita dalla morte della madre e dall’abbandono del padre.

È proprio lei a battezzare il romanzo: Fumana, che nel dialetto della bassa pianura significa nebbia, è un nome parlante, poiché indica la sua natura misteriosa e segreta, nonostante l’irriducibile, manifesta vitalità di bambina. E se il nonno Petrolio, a dispetto di tutte le attese codificate dalla società del tempo, decide di prenderla con sé nella sua vita di pescatore e di allevarla passandole tutto ciò che l’acqua salmastra gli ha insegnato, la nipote da parte sua non disattende il carico di libertà su cui questo legame anticonvenzionale poggia.
Il rapporto tra nonno e nipote, infatti, si riassume perfettamente nell’elemento che dà vita, lavoro, nutrimento, senso ai giorni di chi abita in quel pezzo dimenticato di pianura chiamato Voltascirocco: l’acqua.

Le valli da pesca della laguna del basso Veneto sono un territorio mutante, anfibio, dove tutto si confonde: un eterno labirinto nel quale gli unici punti di riferimento sono tracciati dai briganti (i contrabbandieri), o dai reietti (i pescatori). Per viverci onestamente serve conoscere il territorio, percepirne bene la natura, rispettare i limiti, serbare l’umiltà della gratitudine: pescare il giusto, come ripete Petrolio, che nel farsi vecchio diventa la voce nella quale sopravvive, per proverbio, una tradizione popolare che ricorda, ad altre latitudini, il medesimo sistema di valori dei Malavoglia.

E Fumana, che ha l’occhio della poiana e l’equilibrio del gatto, impara l’acqua prima della terra sul fondo del barchino che il nonno guida nella pesca alle anguille, fonte di tutta l’economia domestica.

Coraggiosa, intrepida, pura della purezza dei cuori limpidi, Fumana riceve come primo regalo nella sua vita una fiocina e un’educazione spiccia alla sopravvivenza: è chiaro che, con questa eredità, si inoltra nella vita con l’ammirevole baldanza della Figlia del Corsaro Nero e con la rosea intransigenza di una Lady Oscar. Una perfetta irregolare per cui è inevitabile parteggiare: a dodici anni sa già stare in equilibrio navigando tra gli intrichi della Valle Moceniga, pesca con precisione, e ha deciso che non sarà una che si farà sposare, ma deciderà da sé e per sé.
Ma in più, Fumana conosce la pietà per gli animali che le danno nutrimento, e nella nebbia sente la presenza materna, con cui innesca un dialogo davanti al cui mistero il nonno capisce di non poter chiedere.

L’incontro decisivo avviene grazie a Lena, la strigossa: una curatrice che conosce l’arte di segnare, che distingue in Fumana la possibile depositaria – e prosecutrice – di quel sapere popolare fatto di erbe da poco e pratiche tramandate, destinato a sopravvivere solo attraverso la parola donata in segreto alla prescelta.

Il segreto stava lì, nella formula. Chi ha il dono di segnare non può farlo, se prima un’altra strigossa non le passa la formula giusta, che dopo dovrà restare assolutamente segreta finché non si trova un’altra giovane da far diventare strigossa.

Quello che Lena cura è uno specchio dello stato di salute (e di malattia) della società del tempo: tossi, febbri, malanni del corpo, fuochi di Sant’Antonio, ma anche anime cadute e meno nominabili segreti.
L’apprendistato, nell’occhio limpido di Fumana, è subito una questione anche di coscienza, e pone una prospettiva che riecheggia dell’eredità manzoniana: il bene è una responsabilità, spiega Lena, a cui non ci si può sottrarre. Tanto più che a fare il male sono buoni tutti, cavarlo – invece – è privilegio e un dono di pochi.

A 17 anni, Fumana – cresciuta dentro il legame di quella sua famiglia elettiva fatta di irregolari sociali – non può che avere assorbito anche un’idea molto autonoma del sentimento e della propria volontà nei confronti del piacere: nel momento in cui, divenuta giovane donna, il tempo lento dell’infanzia e dell’educazione si va compiendo, è l’amore a segnare il prima e il poi.
Cambia il suo corpo, cambia la società, cambiano i riferimenti, la politica, i rancori.
E non è un caso che nella seconda parte del romanzo – quella che va dal 1919 in poi – tutto cammini molto più vorticosamente: perché nella valle arriva l’idrovora, e con l’idrovora (e la bonifica e i canali) la natura viene stravolta. L’acqua si ritira, la nebbia (e la possibilità di sopravvivenza dei misteri e dei rituali più antichi) si rarefà: il nuovo tempo è maschio e studiato, e ha la faccia del dottorino che si sente in dovere di andare a Fumana a dirle di farsi da parte. Per le erbe, soprattutto quelle da poco, per l’affidamento, per la cura, per il mistero, non c’è più posto.

Il progresso (che mostra la sua faccia scorsoia) marcia alla pretesa dell’ordine, ha mani di rapina e la prepotenza di chi si sente sempre in diritto del proprio potere: il precipizio della guerra inghiotte quello che resisteva di quella civiltà contadina di pianura, portando con sé promesse di mali del tutto nuovi.

Per Fumana inizia la stagione della sua personale resistenza.

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