Epica e dubbio, invettiva e ironia: nel cantautore romano convivono – diceva Gianni Mura –
la canzone popolare e il cabaret di Brecht-Weill. Pietrangeli ora torna con tredici brani, vecchi e nuovi, in un disco dal titolo dissacrante “Amore amore amore, amore un c…” dove intervalla la musica con i ricordi di giovinezza
No, Contessa non c’è. O meglio, c’è alla fine del disco, suonata alla fisarmonica senza che l’autore intoni quel ritornello marziale che allora girò con il passaparola di manifestazione in manifestazione. L’aristocratica di allora qui si è declassata diventando, nei ricordi di Paolo Pietrangeli, una vagabonda che al bar i camerieri sfottevano (“Oh, signora contessa…”) permettendole però di sgraffignare tre brioche senza pagare. Era altra cosa la sua contessa inno del ’68 che, conversando con un generale, commentava di “quei quattro straccioni” che avevano fatto uno sciopero “all’industria di Aldo” e, picchiati dalla polizia, “di sangue han sporcato i cortili e le porte, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire”. Quando la scrisse, Paolo Pietrangeli aveva ventitré anni. Era figlio di un regista famoso ma non quanto avrebbe meritato, Antonio (Io la conoscevo bene, Adua e le compagne), rivalutato appieno soltanto in tempi più recenti. Ed era in rotta con il padre perché aveva cambiato facoltà, passando da legge a filosofia, senza avvisare i suoi. Lo spunto per Contessa gli venne ascoltando due avventori reazionari inveire contro gli studenti in fermento al Bar Negresco di Piazza Istria, in quel Quartiere Trieste dove Edoardo Albinati avrebbe ambientato La scuola cattolica, vincitore dello Strega nel 2016.
Da allora quella canzone gli è rimasta appiccicata addosso e lui non la rinnega («Non mi sono mai vergognato di una mia sola canzone. Non mi sono vergognato ieri e non mi vergogno oggi. Ho scritto guardando sempre all’ironia e l’ironia c’era anche in Contessa»). E oggi, a 76 anni, torna con un disco che, dice lui, chiude il cerchio perché con il vinile ha incominciato e con il vinile termina, ma non è detto che sia davvero l’addio. Tredici canzoni delle quali tre inedite, un titolo dissacrante – Amore amore amore, amore un c... – che si ascoltano, per chi non acquista i buoni vecchi padelloni, anche su Spotify e su YouTube. Un disco bello e con una punta di malinconia, che intervalla le canzoni con i ricordi di una vita, soprattutto con quelli di giovinezza.
Le persone che frequentavano casa sua, ed erano la crema del cinema italiano: Ettore Scola che era simpatico e disegnava bene quanto Ennio Flaiano era antipatico, il brusco Pasolini e il laconico Ruggero Maccari fumatore accanito, due sigarette per una parola. L’arguto Federico Zeri che gli inocula la passione per i giochi di parole, i calembour e le filastrocche (“La signora Margherita/ mangia il riso con le dita/ la signora Fantappiè/ con il culo fa pepè”). E poi gli incontri che allora si facevano al ristorante di Cinecittà (Catherine Deneuve che si siede al suo tavolo e lui per l’emozione non riesce a dire neppure bonjour) o alla trattoria Zi’ Cannella dove Anita Ekberg se lo stringe al seno lasciandolo, in tutti i sensi, senza fiato.
Protagonista di gran parte delle storie è un padre normativo (gli dà le chiavi di casa soltanto alla maggiore età, non vuole che segua le sue orme ma se proprio vuole fare cinema “prima ti laurei e poi vai al Centro Sperimentale”) che lo intimorisce e per il quale, già bambino, fa la comparsa. «Papà era onnisciente il che lo rendeva probabilmente antipatico ai più, molto interessante in assoluto e sicuramente palloso per un adolescente che in Grecia, mentre gli altri andavano al mare, girava per musei e rovine con un signore che le epigrafi greche le traduceva in tempo reale».
Muore giovane, quel padre esigente. Nel 1968, a quarantanove anni, quando un incidente lo fa affogare nel mare di Gaeta dove sta terminando di girare il suo ultimo film, che verrà completato da Zurlini. Paolo Pietrangeli cerca lavoro e lo trova nel cinema. Prima con Franco Giraldi e Mauro Bolognini e poi, nel 1970, con Luchino Visconti. Che lo vuole aiuto regista per Morte a Venezia, l’anno dopo lo cercheranno Fellini per Roma e Valerio Zurlini per La prima notte di quiete. Diversi negli umori e diversi anche sul set, Visconti e Fellini: un silenzio da cattedrale con Luchino, una gran cagnara con Federico. Che, quando si azzittiscono, li rimbrotta: “Su, su, fate baccano che altrimenti non riesco a concentrarmi”.
Ma l’aiuto regista è un factotum, uno spicciafaccende, e con Visconti al giovane Pietrangeli tocca anche andare a caccia di roditori. «I topi, anzi le pantegane, Visconti me le fece cercare davvero su un isolotto per esigenze di scena. In Morte a Venezia c’era il colera e le pantegane erano perfette. Ne catturai 150, ma non vivendo in cattività sul set resistettero poche ore. Girammo una scena con i toponi e ci assicurammo che fosse buona la prima: “Guarda Luchino che se scappano non le recuperiamo” lo avvertiamo. E lui: “Tranquilli, ne giriamo solo una”. Naturalmente volle la seconda e dovemmo rincorrere le pantegane fuggite».
In quegli anni di iniziazione, Pietrangeli si divide equamente fra il cinema e il canto politico (un’altra sua canzone, Valle Giulia, con quel suo refrain “non siam scappati più”, è diventata anch’essa un inno) assieme a Giovanna Marini, Ivan Della Mea e gli altri componenti del Nuovo Canzoniere Italiano: circuito militante, compensi esigui quando non inesistenti, un’attività frenetica ma spesso in perdita. Per il cinema, riuscirà a realizzare anche un documentario sul neofascismo (Bianco e nero, 1975) e due pellicole che fanno incassi discreti (Porci con le ali del 1977 e I giorni cantati del 1979). Per mollare negli anni ’80, deluso dai mille progetti che non si concretizzano: in futuro girerà soltanto documentari militanti, intanto si è accasato con Mediaset diventando il regista di fiducia, elogiato anche dall’arcigno Aldo Grasso, di Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. Più d’uno lo critica e lui non si scompone: la televisione è il lavoro che gli dà uno stipendio, basta farlo con dignità, e il canto è una passione gratuita e continuerà a essere tale.
Di quella passione restano diciotto album, con questo appena uscito. Dove la politica si è un po’ fatta in disparte (viene riproposta la splendida Io ti voglio bene degli anni ’80), ma le zampate e gli affondi non mancano: ironiche timidezze sentimentali (Lo stracchino, altro vecchio cavallo di battaglia “non militante”), un’avversione al conformismo linguistico che gli fa preferire il turpiloquio alla melensaggine (Amore un cazzo), la denuncia dei femminicidi e delle violenze familiari resa con narrazioni sapienti (Amore coniugale, Mamma vorrei sapè), i rimorsi d’amore (“Essere pusillanimi/ che malattia che è/ per cancellare i sintomi/ ho cancellato te”, La lettera), il fascino mai sopito per il buio in sala (Cinema 2) e per i giochi di parole (La merendera).
Che è successo all’antico cantore delle barricate? Pietrangeli in realtà ha sempre fuso epica e dubbio, invettiva e ironia: basta ascoltare alcuni suoi classici di anni al calor bianco come I cavalli di Troia e Era sui quarant’anni per rendersene conto. Scriveva a ragione il mai abbastanza rimpianto Gianni Mura, nell’introduzione al suo romanzo del 2015 Una spremuta di vite: «Per molti Pietrangeli è quello di Contessa. Non posso negarlo. Per me è anche altro: una sorta di Houdini del verso, di Philippe Petit del calembour, dell’enjambement, un punto di saldatura tra la canzone popolare e il cabaret di Brecht-Weill. Pietrangeli non ha mai smesso di scrivere canzoni e per molti anni ha fatto politica. Dal basso, dai quartieri, quella dove si suda e non ci sono riflettori. Perché, senza metterla giù tanto dura, quegli anni in cui ribellarsi pareva giusto (e non è escluso che lo sia) non erano solo slogan e fotocopiatrici, sampietrini e occupazioni. Erano anni di amicizia, di passione, di speranza. C’erano tanti modi di viverli e qualcuno la vita ce l’ha lasciata. E qualcun altro la racconta in queste pagine terapeutiche, penso, per chi le ha scritte, e oneste per chi legge».
È così anche per questo disco.