Un biografia autoriale in qualche modo ‘inchiodata’ alla sua famosissima ‘Contessa’ e invece poliedrica e ricca di sfumature quella di Paolo Pietrangeli, ultimo Premio Tenco appena scomparso. Qui il racconto di una vita tra musica, incontri e politica, senza pentimenti, barra dritta sull’ironia
«L’esuberanza e il fervore giovanile che all’età di vent’anni gli hanno ispirato Contessa hanno creato di lui l’immagine di un autore esclusivamente orientato a inni roboanti. Nulla di più lontano dalla sua vera vena poetica, costruita casomai sulla bonaria ironia e sul dubbio continuo in grado di rimettere in discussione ogni verità che si ritiene assoluta. Maestro del linguaggio dai virtuosismi verbali, inventore di immagini esotiche, eretiche ed erotiche, dispensa aneddoti e riflessioni danzando su sintassi musicali sapienti e, al contempo, di immediata presa, come si addice ai veri creatori di canzoni popolari». Con questa motivazione, un mese fa Paolo Pietrangeli otteneva il Premio Tenco alla carriera. Non poté ritirarlo di persona: stava male, che la sua lunga storia stesse volgendo al termine lo abbiamo appreso soltanto qualche giorno fa.
Il Club Tenco aveva qualche ragione: l’inno roboante, è vero, fu soprattutto frutto di passione (e intemperanza) giovanile, mentre il ragionare della politica (e delle sconfitte di una generazione, anche private, anche individuali) fu filo rosso del suo canzoniere. Condito di robuste dosi d’ironia (non sempre bonaria, spesso aguzza come un pezzo di vetro). E insaporito da giochi di parole spiazzanti, che saltando in apparenza di palo in frasca gli facevano per esempio accostare (La star) “stelle” assai lontane fra loro, quelle del cinema e quelle del terrorismo:
Di star ce ne son tante
a tre, a quattro, a cinque punte
tutte quante che si fan pubblicità.
Sì, Paolo Pietrangeli intonava “Compagni dai campi e dalle officine/ prendete la falce e portate il martello” ma anche “Certezza, certezza/ mi punge vaghezza di te”. La lotta, ma anche l’autoironia di chi scende dal pero, già nel 1975 (l’album, splendido, è I cavalli di Troia):
La notte in cui mi tolsi l’armatura,
scopersi qualche ammaccatura,
graffi superficiali,
indolenziti i muscoli dorsali.
Ma piccoli problemi,
capii di stare meglio senza freni,
senza tante paure
e chiodi o serrature.
I movimenti, certo, un pò impacciati,
dopo tanto legati,
poi liberi e contenti
di tornare normali.
La notte in cui mi tolsi l’armatura,
mi misi anche gli occhiali…
E la presa d’atto disincantata di un’epoca che chiude i battenti, come nell’agro commento del 1980 (Ma per fortuna che c’è la Roma) sui governi di solidarietà nazionale:
Per tre anni nel bosco
coi quaranta ladroni
eravamo convinti
diventassero buoni.
Filologicamente
sono molti gli arcani
eravamo marxisti
ci sentiamo marziani.
Che non fosse autore monolitico, e che sapesse “giocare con i santi”, lo si era appreso già dall’album di esordio del 1969, Mio caro padrone domani ti sparo, quello che conteneva Contessa.
La rivoluzione non si farà, forse neppure le riforme, era il beffardo assunto di Certo i padroni morranno:
Certo i padroni morranno
morranno davvero
nell’aspettar che aspettiamo
che muoiano loro
pensa un pò quanto pesa
morire nell’attesa
e per questo morire
senza colpo ferire.
Certo i padroni morranno
che arma sottile
che abbiamo trovato compagni
per farli morire
e il sol dell’avvenire
sarà più luminoso
perché morranno stanchi
dopo tanto riposo.
Piangerà certo Agnelli
per la sua situazione
ci chiederà di far rivoluzione
con lui la Confindustria
tremante di paura
noi non farem nemmeno
riforme di struttura.
Certo i padroni morranno
che arma sottile
che abbiam trovato compagni
per farli morire
e l’attesa sarà
più lunga certo
cosicché moriran
tutti d’infarto.
Ma noi duri di pietra
in questa crudeltà
morite pur da soli
noi non avrem pietà.
Quanto a Contessa, fa capolino come un fantasma discreto nella tarda produzione di Pietrangeli. In Paolo & Rita del 2015, in elegante coabitazione con la pianista Rita Marcotulli, il refrain viene jazzato nel disilluso Polvere e accompagna i versi «Nei campi nel mare e in periferia/ la polvere sale e confonderà/ la trama il tessuto la forma il colore/ la traccia di ogni responsabilità». E nell’album estremo, Amore amore amore, amore un… del 2020, pubblicato soltanto in vinile come i lavori degli inizi (ma su Spotify lo trovate) compare soltanto alla fine del disco, suonata alla fisarmonica senza che l’autore intoni quel ritornello marziale che allora girò con il passaparola di manifestazione in manifestazione. L’aristocratica di allora qui si è declassata diventando, nei ricordi di Pietrangeli, che nel disco si diverte a raccontare, una vagabonda che al bar i camerieri sfottevano (“Oh, signora contessa…”) permettendole però di sgraffignare tre brioche senza pagare.
Era altra cosa la sua contessa inno del ’68 che, conversando con un generale, commentava di “quei quattro straccioni” che avevano fatto uno sciopero “all’industria di Aldo” e, picchiati dalla polizia, “di sangue han sporcato i cortili e le porte, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire”. Quando la scrisse, Paolo Pietrangeli aveva ventitré anni. Era figlio di un regista famoso ma non quanto avrebbe meritato, Antonio (Io la conoscevo bene, Adua e le compagne), rivalutato appieno soltanto in tempi più recenti. Ed era in rotta con il padre perché aveva cambiato facoltà, passando da legge a filosofia, senza avvisare i suoi. Lo spunto per Contessa gli venne ascoltando due avventori reazionari inveire contro gli studenti in fermento al Bar Negresco di Piazza Istria, in quel Quartiere Trieste dove Edoardo Albinati avrebbe ambientato La scuola cattolica, vincitore dello Strega nel 2016 e film recentissimo.
Da allora quella canzone gli è rimasta appiccicata addosso e lui non l’ha rinnegata («Non mi sono mai vergognato di una mia sola canzone. Non mi sono vergognato ieri e non mi vergogno oggi. Ho scritto guardando sempre all’ironia e l’ironia c’era anche in Contessa»).
Nei ricordi di Pietrangeli – il disco del 2020 è una miniera di aneddoti – sfilano le persone che frequentavano casa sua, ed erano la crema del cinema italiano: Ettore Scola che era simpatico e disegnava bene quanto Ennio Flaiano era antipatico, il brusco Pasolini e il laconico Ruggero Maccari fumatore accanito, due sigarette per una parola. L’arguto Federico Zeri che gli inocula la passione per i giochi di parole, i calembour e le filastrocche (“La signora Margherita/ mangia il riso con le dita/ la signora Fantappiè/ con il culo fa pepè”). E poi gli incontri che allora si facevano al ristorante di Cinecittà (Catherine Deneuve che si siede al suo tavolo e lui per l’emozione non riesce a dire neppure bonjour) o alla trattoria Zi’ Cannella dove Anita Ekberg se lo stringe al seno lasciandolo, in tutti i sensi, senza fiato.
Protagonista di gran parte delle storie è un padre normativo (gli dà le chiavi di casa soltanto alla maggiore età, non vuole che segua le sue orme ma se proprio vuole fare cinema “Prima ti laurei e poi vai al Centro Sperimentale”) che lo intimorisce e per il quale, già bambino, fa la comparsa. «Papà era onnisciente il che lo rendeva probabilmente antipatico ai più, molto interessante in assoluto e sicuramente palloso per un adolescente che in Grecia, mentre gli altri andavano al mare, girava per musei e rovine con un signore che le epigrafi greche le traduceva in tempo reale».
Muore giovane, quel padre esigente. Nel 1968, a quarantanove anni, quando un incidente lo fa affogare nel mare di Gaeta dove sta terminando di girare il suo ultimo film, che verrà completato da Zurlini. Paolo Pietrangeli cerca lavoro e lo trova nel cinema. Prima con Franco Giraldi e Mauro Bolognini e poi, nel 1970, con Luchino Visconti. Che lo vuole aiuto regista per Morte a Venezia, l’anno dopo lo cercheranno Fellini per Roma e Valerio Zurlini per La prima notte di quiete. Diversi negli umori e diversi anche sul set, Visconti e Fellini: un silenzio da cattedrale con Luchino, una gran cagnara con Federico. Che, quando si azzittiscono, li rimbrotta: “Su, su, fate baccano che altrimenti non riesco a concentrarmi”.
Ma l’aiuto regista è un factotum, uno spicciafaccende, e con Visconti al giovane Pietrangeli tocca anche andare a caccia di roditori. «I topi, anzi le pantegane, Visconti me le fece cercare davvero su un isolotto per esigenze di scena. In Morte a Venezia c’era il colera e le pantegane erano perfette. Ne catturai 150, ma non vivendo in cattività sul set resistettero poche ore. Girammo una scena con i toponi e ci assicurammo che fosse buona la prima: “Guarda Luchino che se scappano non le recuperiamo” lo avvertiamo. E lui: “Tranquilli, ne giriamo solo una”. Naturalmente volle la seconda e dovemmo rincorrere le pantegane fuggite».
In quegli anni di iniziazione, Pietrangeli si divide equamente fra il cinema e il canto politico (un’altra sua canzone, Valle Giulia, con quel suo refrain “non siam scappati più”, è diventata anch’essa un inno) assieme a Giovanna Marini, Ivan Della Mea e gli altri componenti del Nuovo Canzoniere Italiano: circuito militante, compensi esigui quando non inesistenti, un’attività frenetica ma spesso in perdita. Per il cinema, riuscirà a realizzare anche un documentario sul neofascismo (Bianco e nero, 1975) e due pellicole che fanno incassi discreti (Porci con le ali del 1977 e I giorni cantati del 1979). Per mollare negli anni ’80, deluso dai mille progetti che non si concretizzano: in futuro girerà soltanto documentari militanti, intanto si è accasato con Mediaset diventando il regista di fiducia, elogiato anche dall’arcigno Aldo Grasso, di Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. Più d’uno lo critica e lui non si scompone: la televisione è il lavoro che gli dà uno stipendio, basta farlo con dignità, e il canto è una passione gratuita e continuerà a essere tale.
Di quella passione restano diciotto album. Che mischiano militanza e controcanto ironico (ma la splendida Io ti voglio bene degli anni ’80 trasforma la politica in vita), esotismi antigozzaniani come Isole dall’incedere quasi à la Paolo Conte («In quelle isole lontane/ là dove crescon le banane/ io ti vorrei pure portare/ ma dovresti rinunciare/ al trumeau col vellutino/ dallo al vicino»), bilanci sentimentali appena a un passo dalla commozione come nella quietamente struggente Sirene («A caccia di sirene con la fionda/ una sirena bionda esce dall’onda»).
Allora ha ragione il Club Tenco? Con il tempo, al cantore delle barricate è subentrato il borghese al tempo stesso tormentato e disincantato, con qualche estremo guizzo di umor nero (la bellissima Fiore di Gaza)? L’ho già detto, Pietrangeli in realtà ha sempre fuso epica e dubbio, invettiva e ironia: basta ascoltare alcuni suoi classici di anni al calor bianco come I cavalli di Troia e Era sui quarant’anni per rendersene conto. Scriveva a ragione il mai abbastanza rimpianto Gianni Mura, nell’introduzione a un suo romanzo del 2015, Una spremuta di vite: «Per molti Pietrangeli è quello di Contessa. Non posso negarlo. Per me è anche altro: una sorta di Houdini del verso, di Philippe Petit del calembour, dell’enjambement, un punto di saldatura tra la canzone popolare e il cabaret di Brecht-Weill. Pietrangeli non ha mai smesso di scrivere canzoni e per molti anni ha fatto politica. Dal basso, dai quartieri, quella dove si suda e non ci sono riflettori. Perché, senza metterla giù tanto dura, quegli anni in cui ribellarsi pareva giusto (e non è escluso che lo sia) non erano solo slogan e fotocopiatrici, sampietrini e occupazioni. Erano anni di amicizia, di passione, di speranza. C’erano tanti modi di viverli e qualcuno la vita ce l’ha lasciata. E qualcun altro la racconta». Ecco, Paolo Pietrangeli ce l’ha saputa raccontare.