Jude Law è in stato di grazia, sorretto dal resto da un cast strepitoso (Keaton, Orlando, Sagnier, De France, Cromwell, Sheperd); e in più di uno dei dieci episodi della serie il regista napoletano è del tutto convincente nel suo racconto “popolare” di intrighi e contraddizioni, personali, politici e religiosi all’ombra di San Pietro. Resta il dubbio però che il passo della serie non sia il più adatto alla sua rivoluzione, stilistica e narrativa, che meglio si è espressa nei film più riusciti, da “Il Divo” a “Youth”
Bisognava aspettarselo che Paolo Sorrentino si sarebbe cimentato con i tempi di una serie. Stiamo attraversando un periodo cruciale di transizione, dove il linguaggio popolare del cinema viene sempre più espresso con le forme e le lunghezze della serialità: è più facile che un cinefilo medio abbia visto le stagioni de Il trono di spade e House of Cards piuttosto che alcuni dei candidati all’Oscar per miglior film degli ultimi anni. E, da sempre, quello che è il grande fine ultimo del cinema di Paolo Sorrentino è realizzare qualcosa di bello per il popolo, qualcosa di popolare. Ma popolare non significa semplice o banalizzante: e per questo Sorrentino affascina anche per i suoi virtuosismi, per la sua complessità tecnica, stuzzica per le sue raffinatezze visive.
A tal proposito, The Young Pope è un perfetto esempio di prodotto sorrentiniano, pensato per il pubblico di massa e non per i festival o le buone recensioni: una serie di dieci episodi, che sfrutta temi attualmente di grande presa come l’intrigo, il potere, l’ambizione, e uno sempiterno come le contraddizioni politiche e istituzionali, morali e teologiche, della Chiesa. Da questo punto di vista, il “prodotto” è assolutamente impeccabile: le visioni e le suggestioni del regista napoletano non mancano, ma Sorrentino è bravo anche a non abusare di eccessi stilistici e a controllare la propria regia in funzione del “prodotto”, appunto.
La fotografia è seducente, le scelte musicali sono accattivanti. E, soprattutto, la scelta internazionale del cast è di valore assoluto: quella di Lenny Belardo è una delle migliori prove nella carriera di Jude Law, mai così istrionico e ambiguo; Diane Keaton e Silvio Orlando non hanno bisogno di presentazioni, e neppure di faticare per catalizzare su di loro l’attenzione dello spettatore; ma non vanno neppure dimenticati lo spagnolo Javier Camara, eccezionale nei panni del cardinale Gutierrez, l’eleganza di Ludivine Sagnier e Cécile De France, così come appaiono memorabili il cardinale Michael Spencer di James Cromwell e il cardinale Dussolier di Scott Shepherd. Proprio quest’ultimo risulta essere uno dei personaggi più incisivi di The Young Pope, al punto da rubare la scena allo stesso Papa di Law nel settimo episodio, forse il più bello e l’unico che potrebbe avere una vita a sé da “mediometraggio”, fatto e finito, beffardo ed epico come le cose più belle viste al cinema di Paolo Sorrentino.
E qui sopraggiunge il dubbio che quella di “showrunner” non sia effettivamente la vera natura del regista: va detto che ad alcuni passaggi di grandissimo cinema (come il duetto tra Law e Accorsi/Renzi del sesto episodio che possiede la statura di cult immediato, ed entra di diritto tra i momenti fondamentali dell’immaginario sorrentiniano), si alternano troppi momenti in cui la narrazione gira a vuoto, come se servissero a riempire dei buchi temporali appartenenti al linguaggio delle serie che però collidono con l’idea di cinema del regista. Dopo la folgorazione dei primi due episodi, infatti, il terzo e il quarto ci sono sembrati non soltanto statici ma anche privi di brillante intrattenimento, per poi recuperare con il quinto, dove finalmente si consolida la complessa personalità di Belardo. E l’episodio finale, purtroppo, non si è rivelato all’altezza delle aspettative, scegliendo la strada più prevedibile e rassicurante.
The Young Pope non può veramente sorprendere chi conosce il viaggio cinematografico del regista napoletano. Certo, il “prodotto” è di alto profilo, ma – a parte l’indubbia professionalità dell’operazione – il cuore e l’anima sono fin troppo trattenuti. Le confessioni del Sorrentino più intimo e personale, le stoccate e gli sfoghi più autentici dell’artista, vanno ricercati in quello che a oggi è il suo ultimo lungometraggio, Youth – La giovinezza. Come il Papa di Jude Law e i suoi cardinali, i protagonisti di Youth sono accomunati da un filo rosso: la richiesta di adesione al proprio ruolo nel mondo, sempre determinato dalle proprie passioni, dalle proprie esigenze: il direttore d’orchestra Fred Ballinger (Michael Caine) e il regista Mick Boyle (Harvey Keitel), entrambi in via di declino, si sorreggono vicendevolmente, raccontandosi “solo le cose belle” e rispecchiandosi nella creatività artistica dell’altro; e tutti i personaggi del film, dall’attore Jimmy Tree di Paul Dano alla Miss Universo Madalina Ghenea, non fanno che voler ribadire e portare fino alle estreme conseguenze ciò per cui lavorano, quello che rappresentano e per cui esistono. Che non è altro che il percorso, raccontato in maniera più tortuosa e perversa, di Pio XIII in The Young Pope.
Piaccia o meno, Youth è il vero manifesto del Sorrentino-pensiero: qui si inneggia manifestamente alla leggerezza, alla canzone semplice, al linguaggio popolare (“gli intellettuali non hanno gusto”). Può essere che alcuni dialoghi del film siano nati dalla necessità del regista di reagire alle critiche feroci della stampa, sempre più esigente verso i suoi film, in particolare La Grande Bellezza. Sicuramente molti addetti del settore soffrono proprio la popolarità che lui ha acquisito a livello internazionale, dopo il riconoscimento unanime dello status di capolavoro al suo Il Divo. Un’invidia e un rancore da parte di colleghi (e non solo) che probabilmente Sorrentino percepiva da tempo, e che la conclamata rivalità giornalistica con Matteo Garrone non ha certamente aiutato. Così Youth è il film che più si relaziona con tutto questo, e sarà ricordato come quello dove il regista si “dimette” definitivamente da ogni incombenza di autorialità.
Sembra curioso che l’insofferenza di Sorrentino si manifesti proprio nel momento in cui vince l’Oscar al miglior film straniero con La Grande Bellezza, un’opera che rimane molto contraddittoria, tanto ambiziosa quanto sfiancante. Il successo all’Academy non inganni: gli americani non aspettavano altro che un cineasta italiano che potesse esser considerato l’erede di Federico Fellini. La Grande Bellezza rappresenta un mondo che esiste, ma forse interessava l’idea d’Italia e di Roma che desiderano avere Oltreoceano, piuttosto che la nostra: programmatica, grandiosa, eccessiva. Anche in questo caso abbiamo un personaggio che aderisce al suo ruolo fino in fondo, il Jep Gambardella di Toni Servillo, flaneur metropolitano per antonomasia, intellettuale dandy cinico e disilluso, viziato e annoiato, che “non vuole soltanto partecipare alle feste ma avere il potere di farle fallire”. Alcune sequenze e dialoghi sono già entrati nell’immaginario collettivo e nel linguaggio comune, e con merito; ciononostante, La Grande Bellezza è un film che va a sprazzi, discontinuo, anche se esteticamente poderoso.
Per chi scrive, This Must be the Place è l’unico suo vero passo falso, nient’altro che un biglietto da visita per presentarsi al pubblico americano: manierismo puro, dove Sorrentino fa sfoggio delle sue abilità tecniche in maniera invasiva e poco funzionale alla narrazione. Però anche il protagonista Cheyenne (Sean Penn, troppo sopra le righe), rockstar sul viale del tramonto in viaggio in America dove ha un compito da portare a termine, a posteriori si rivela un altro personaggio nella galleria dell’autore con un fine preciso e un’aderenza alla propria immagine, al proprio ruolo nel mondo portati quasi fino all’esasperazione.
Non è questione di essere duri e puri, nostalgici o troppo radicali: nelle opere più recenti Paolo Sorrentino avrà pure perfezionato il proprio stile, ma non è più riuscito a restituire la dirompenza dei suoi primi quattro indimenticabili film (Il divo, L’amico di famiglia, Le conseguenze dell’amore, L’uomo in più), capolavori, si può dire, capaci di rappresentare un nuovo punto di riferimento, un termine di paragone per il cinema italiano. Innanzitutto da un punto di vista tecnico ed estetico: nessuno aveva mai girato con una pulizia simile, con questa cura dell’immagine. Poi, da un punto di vista di forza popolare, appunto: arrivati al grande pubblico forse più tardi, i primi tre film dimostrano una capacità di racconto travolgente, delineando un’umanità romantica e perdente (Tony Pisapia di L’uomo in più o Titta Di Girolamo di Le conseguenze dell’amore) oppure acida e sgradevole (Geremia De Geremei di L’amico di famiglia), introducendo anche in Italia un linguaggio pop, postmoderno, anticonvenzionale, iconoclasta. In Il Divo a tutto questo si aggiungono i temi di The Young Pope : l’intrigo, l’ambizione, il potere, la corruzione, la contraddizione delle istituzioni e dei poteri forti. Sorrentino non è interessato all’uomo o al politico, ma all’icona Giulio Andreotti, e tiene subito lontano ogni legame con la tradizione del cinema civile e di denuncia, nazionale e no. E questo è successo molto prima di Il trono di spade e House of Cards.