Ha vinto il Leone d’Argento all’ultima Mostra di Venezia il film dell’80enne maestro russo, che in una sorta di inchiesta/confessione racconta tre vite complesse, immerse nella tragedia dell’Olocausto e della Seconda Guerra Mondiale. Due uomini e una donna che parlano al pubblico in un asettico bianconero, mentre in parallelo scorrono le immagini delle loro esistenze senza speranza
Tre personaggi in cerca d’autore. O meglio, in cerca di un modo autoriale di comunicare al pubblico le loro storie. Perché è chiaro che in Paradise del glorioso regista russo 80enne Andrej Končalovskij– passato come il fratello Nikita Michalkov attraverso molte stagioni della cultura e della politica del suo paese, dall’era sovietica a quella di Putin – che in questi ultimi anni ha vissuto una vera seconda primavera vincendo alla Mostra di Venezia nel 2002 il premio speciale della giuria con La casa dei matti e un doppio Leone d’Argento nel 2014 con Le notti bianche del postino e nel 2017 con quest’ultimo lavoro, c’è un tema forte, fortissimo come l’Olocausto, e la sua declinazione attraverso le storie dei tre protagonisti, il loro modo di reagire a una realtà terrificante che affrontano da punti di vista (e di potere) assai diversi tra loro (per dirla col regista, “influenzati dagli orrori della guerra ognuno di loro prende una decisione importante, sulla base del suo concetto di giustizia che cambia tutta la sua vita: ma è possibile mantenere l’umanità provando un inferno in terra?”). Ma è altrettanto chiaro che nel film il tema principale si rivela subito la strategia della rappresentazione, il modo di comunicare questo soggetto enorme.
Olga (Julia Vysotskaja grande interprete cecoviana e moglie di Končalovskij) aristocratica russa e membro della Resistenza francese, viene arrestata dai nazisti perché nasconde dei bambini ebrei. Alla stazione di polizia incontra Jules (Philippe Duquesne), funzionario francese amante della vita piacevole, diventato collaborazionista dei nazisti, pronto ad alleggerirle la cattiva sorte in cambio di un rapporto sessuale. Ma subito viene ucciso dai maquis, sotto gli occhi atterriti del figlio. Olga viene allora portata in un campo di concentramento dove conosce Helmut (Christian Clauss), erede di una nobile famiglia tedesca, nazista convinto, uomo molto colto che ha raggiunto un’alta carica nelle SS e indaga sulla corruzione nei lager. Da tempo, da “un’altra vita” che insieme hanno attraversato in Italia qualche anno prima, è innamorato di lei e così nasce una relazione contorta, distruttiva, che lo porta a decidere di salvare Olga, progettando insieme a lei una fuga lontano da tutto. Ma le scelte di entrambi – per slancio morale, per nichilismo – portano alla fine il racconto verso altre direzioni.
Jules, Olga ed Helmut parlano per tutto il tempo direttamente allo spettatore, ognuno nella sua lingua (francese, russo e tedesco) in un asettico, metafisico altrove bianconero (“penso che l’Olocausto e i campi di concentramento visti a colori, o, peggio, in 3D, siano osceni”). Sono già morti e si confessano, rispondono alle domande di un interlocutore che resta ignoto, forse una sorte di tribunale (umano ? divino?). Le loro parole sono intervallate dagli eventi tragici che hanno vissuto, tra carcere e lager, negli ultimi anni delle loro esistenze, che sono anche quelli orribili della “soluzione finale” hitleriana e della rovina bellica della Germania. L’effetto per il pubblico, voluto dagli autori, è quello di rivedere cinegiornali d’archivio degli anni 40, a comporre però una triplice storia, inventata ma verosimile.
Di certo Paradise, è un appello a non dimenticare la verità, per quanto tremenda sia, soprattutto per non compiere di nuovo gli errori del passato. Il nazismo vi appare inequivocabilmente come il male assoluto, del resto storicamente (oltre che eticamente, culturalmente, politicamente) è da tempo chiaro che sia così, ma questo nelle intenzioni dell’autore non significa necessariamente giudicare, condannare i suoi protagonisti. Anzi: “Li amo tutti e tre questi personaggi, è molto importante amarli, perché così è più facile mostrare che un nazista è una persona orribile. Il diavolo è una cosa molto sofisticata, per questo ha così successo. Io credo che il pubblico non debba farsi conquistare da verità pre-costituite ma concedersi, entrare nella seduzione dei personaggi. Come in un romanzo, dove puoi avere eroi meravigliosi che sono totalmente nell’errore”.
Dedicato alla memoria degli emigranti russi e dei combattenti della resistenza francese contro l’occupazione nazista, che hanno sacrificato la loro vita per salvare bambini ebrei, Paradise si conquista un suo posto nell’ormai variegatissimo catalogo di film sull’Olocausto, che in tempi recenti ha prodotto titoli di qualità molto alta, da Austerlitz di Sergey Loznitsa a Il figlio di Saul di László Nemes, un po’ più indietro a Il pianista di Roman Polanski. Končhalovskij come Loznitsa riflette sull’assuefazione delle persone all’orrore, al “paradiso” del titolo, che è quello nazista, basato sull’annientamento di milioni di ebrei e di coloro che non rientravano nell’immagine del mondo ideale tedesco. E se è stato possibile che accadesse, è possibile che accada di nuovo, in ogni momento, soltanto la conoscenza è capace di scongiurarlo. Del resto, meno di un secolo dopo stiamo di nuovo vedendo circolare in Europa tanti elementi di questa specie di isteria razzista.
Ma il regista pare qui credere, più che alle immagini, al discorso sulle immagini, e del resto lui ama più la parola delle immagini stesse, la letteratura più del cinema, dove si mostra, si vede tutto (o quasi), e per il pubblico c’è meno spazio di fantasticare, evocare personaggi. Quello che conta sembra contare per lui è il luogo della creazione, dell’espressione attoriale, registica, e della comunicazione col pubblico. Il suo film sembra un esperimento interessante, ma più che su come leggere la Storia, su come raccontarla.
Paradise, di Andrej Končalovskij, con Julia Vysotskaja, Philippe Duquesne, Christian Clauss