C’è una cangiante, irrefrenabile protagonista, al centro del secondo film del critico americano Zachary Wigon. Una commedia nera a due voci che mette di fronte il rampollo di una famiglia miliardaria e una misteriosa partner, un po’ fragile, un po’ dominatrice. Un racconto brillante e crudele dove è tutto un mettere e togliere maschere e parrucche. E in cui l’erotismo forse non è il vero centro del racconto
Un uomo e una donna chiusi nell’immensa suite di un hotel di lusso sono i protagonisti di Sanctuary, secondo lungometraggio del critico cinematografico americano Zachary Wigon. Lui si chiama Hal Portfield (Christopher Abbott) ed è il ricchissimo rampollo di una famiglia che possiede una catena di alberghi, l’erede designato che dovrà sedere sulla poltrona di amministratore delegato di un impero miliardario. Lei dice di chiamarsi Rebecca (Margaret Qualley), forse è una professionista che deve occuparsi di questioni legali, forse una escort ingaggiata come dominatrix, forse una donna fragile che vive di segreti, forse una rivale, una controparte capace di condurre il gioco con inossidabile fermezza e magnifica audacia. Anche erotica, pur non essendo questo il vero fulcro del racconto.
Una sola cosa è certa: Sanctuary è la parola magica, quella che mette al riparo, interrompe il gioco, ci porta in salvo. Questo ci è chiaro. Ma il gioco, davvero, qual è? Anche una volta arrivati in fondo, all’ultima inquadratura, non siamo certi di saperlo, perché quella porta che si chiude e su cui il film finisce potrebbe benissimo riaprirsi un istante dopo. Sarebbe perfettamente coerente con quello che abbiamo visto per tutti i 97 minuti precedenti.
È difficile raccontare questo film senza svelare più del necessario, senza rischiare di rovinare l’effetto sorpresa, senza mettere lo spettatore nella spiacevole situazione di sapere troppo, o comunque più di quello che di volta in volta è indispensabile conoscere per lasciarsi cullare, ma a tratti anche graffiare furiosamente, da questo film curioso, inquietante, a tratti vertiginoso, capace di raccontare il desiderio come bisogno lancinante senza scivolare nella noiosa palude dell’erotismo patinato e inutile. Una commedia nera a due voci, dove è tutto un mettere e togliere maschere e parrucche, svelarsi e nascondersi, in un gioco al massacro dall’esito incerto e proprio per questo affascinante.
Una sceneggiatura (firmata da Micah Bloomberg, già autore di Homecoming) brillante e crudele, che procede implacabile, senza un attimo di tregua, disegnando una relazione di potere a geometria variabile dalle tante possibili letture. Interessante sia nei momenti più concitati e dal ritmo thriller, sia nei dialoghi sospesi sull’abisso filosofico dello gnōthi seautón – Conosci te stesso. La regia concitata, a tratti quasi funambolica, è tutta al servizio delle parole e della recitazione, di entrambi gli interpreti. Ma questo film deve gran parte della sua riuscita a lei, Margaret Qualley: cangiante, fascinosa, irrefrenabile, a tratti esplosiva. Insomma, strepitosamente brava!
Sanctuary di Zachary Wigon, con Margaret Qualley, Christopher Abbott